venerdì 15 febbraio 2013

Al voto al voto - 11

"In questa occasione più che una dichiarazione di voto vorrei fare un invito al voto responsabile.
In questa tornata elettorale ancora una volta predominano gli zombie di un modello economico e sociale inumano, fondato sul profitto e sull'egoismo, e anche l'alternativa urlata, dei vaffanculo, alla fine 'riciccia' il medesimo modello, senza criticarlo o proporre altro, mostrando il proprio limite. Lasciando alla coscienza di ciascuno la scelta nel segreto della cabina elettorale, non rimane che un invito a pensare al bene comune, ad uscire dal conformismo che ci vuole solamente interessati al nostro tornaconto e che ci deresponsabilizza, al grido per cui la colpa è sempre di qualcun altro. 


Ecco la sintesi del mio invito al rinnovamento:"



Simone - Londra


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L'America di Obama e il ritorno della politica

di Nicola Melloni

da Liberazione

Ci sono novità interessanti nel Discorso sullo stato dell'Unione

Discorso di alto profilo quello di Obama sullo Stato dell’Unione, il primo vero intervento dopo essere stato rieletto. Un discorso che spazia in lungo e in largo, di ampio respiro e che rimette le politica democratica – nel suo senso più alto, non di partito – al centro della scena.
Obama, è bene ricordarlo a quanti lo temono (e ai pochi che lo sperano), non è un socialista. Tutt’altro. Nella sua visione del mondo, il mercato rimane il perno fondamentale attorno a cui ruota l’America e il mondo. E trova pure faticoso, se non proprio strano, regolarlo, come ha dimostrato durante il suo primo mandato.
Il presidente americano è però un vero democratico attento al funzionamento del sistema politico e alla sua capacità di ascolto ed inclusione. Obama non teme il mercato come meccanismo economico, ma è conscio della minaccia che il mercato rappresenta per la democrazia. In particolare di come la marginalizzazione economica e lo sfruttamento stiano sempre più portando verso l’espulsione di fatto dalla cittadinanza di larghe fasce di popolazione.
In fondo questo è la democrazia, almeno per come la concepisce Obama: inclusione e diritti, siano essi civili o sociali (largamente non economici, comunque, e per questo non è e non sarà mai un socialista).
Nel primo term la sua battaglia di bandiera fu la riforma sanitaria. Che molti commentatori, noi compresi, giudicammo duramente, perché non intaccò il potere delle assicurazioni private, né cambiò la natura del sistema sanitario. Ma ottenne indubbiamente un risultato, la copertura sanitaria per molti dei milioni di americani che ne erano esclusi. Appunto, inclusione e allargamento dei diritti.
Adesso Obama torna alla carica con un programma ancora più vasto. Ed allora salario minimo innalzato per fermare l’immiserimento della società americana, ben sapendo che i più poveri, negli Usa, sono esclusi, sono cittadini di serie B. E poi la scuola. Una scuola migliore, che vuol dire dare più opportunità a chi non si può permettere le rette delle scuole dei ricchi, e vuole anche dire una scuola che cominci prima, perché migliora l’educazione, ma anche perché libera le tante madri-lavoratrici dall’impossibile compito di sfamare ed educare i figli allo stesso momento. E il tema dell’attiva emancipazione delle donne ricorre spesso nel discorso di Obama, che vuole eliminare la scandalosa differenza di sesso nei salari. Infine, naturalmente, gli immigrati: lo stato che più di ogni altro deve la sua prosperità all’emigrazione si è chiuso in se stesso e ha alzato muri contro i diversi, ed il Presidente nero figlio di un padre keniota vuol fare sua la battaglia sui diritti degli immigrati.
Si tratta di una pagina di buona, ottima politica. L’America è da sempre lo Stato occidentale dove la cittadinanza ed i diritti sono più a rischio – basti pensare agli ostacoli esistenti per esercitare il diritto di voto – mentre l’Europa è stato, per gli ultimi sessant'anni, il continente della socialdemocrazia. Ma con la crisi finanziaria le posizioni si stanno invertendo: mentre Obama diventa il paladino dei diritti, in Europa assistiamo ad un attacco concentrico al “diritto di avere diritti”, come direbbe Stefano Rodotà. A cominciare, naturalmente, da Marchionne, “l’americano”  che sequestra diritti in cambio di tozzi di pane. Continuando con un’ Europa dove il diritto alla casa, al lavoro, alla stessa assistenza medica (dalle privatizzazioni spagnole allo sfascio sanitario greco) vengono continuamente messi in discussione. Per finire, naturalmente, con una politica in cui intere popolazioni sono tenute sotto ricatto, a volte dai mercati, a volte dalla Ue. Tutti elementi di una società malata e di una democrazia corrotta. Ricominciare a intendere la politica attraverso l’inclusione, come fa Obama, contro l’esclusione di marca neoliberista sarebbe allora un ottimo punto di partenza per la rinascita di un vero movimento democratico.

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L'Europa che non serve

di Nicola Melloni

da Liberazione

Disoccupazione, povertà, recessione: queste sconosciute...

Alla fine, dopo una lunga contrattazione, l’accordo è stato raggiunto ed il nuovo bilancio europeo è stato firmato. Mettendo insieme tutto e il contrario di tutto, per altro con la felicità di ciascuno e, almeno all’apparenza, convinto di essere uscito vittorioso. Da una parte gli inglesi che hanno già annunciato di voler fare un referendum per uscire dalla Ue, ma intanto lavorano attivamente per distruggerla, pretendendo continui tagli di bilancio (e, dunque, meno investimenti); dall’altra i francesi che gridano e si dibattono per avere più Europa, ma alla fine si accontentano di difendere i soldi da dare all’agricoltura (proprio mentre spingiamo i paesi in via di sviluppo verso il free trade). In mezzo i tedeschi, custodi dell’ortodossia rigorista, che firmano un bilancio in deficit per accontentare i minori contributi che pretendeva Londra, con le spese immutate richieste da Parigi.
Alcuni parlano di politica, di arte del compromesso. In realtà non si tratta neanche di un compromesso al ribasso, ma di un vero e proprio buco nell’acqua. Mentre nell’Europa tutta infuria una tempesta economica di dimensioni epocali, dentro i palazzi di Bruxelles 27 politici sempre più simili a grigi burocrati non hanno nulla da proporre, se non litigare sul nulla davanti ai cittadini sbigottiti. La redazione del bilancio, tanto a livello nazionale quanto europeo, dovrebbe essere il momento principe per discutere dei problemi economici e soprattutto delle soluzioni. Se dovessimo allora valutare i problemi dell’Europa da quello che si è visto in questi giorni a Bruxelles, potremmo pensare che i problemi maggiori sono quelli di piccolissimo cabotaggio – ed anche su quelli non riusciamo a trovare soluzioni condivise. Quello che è completamente assente è una strategia di più largo respiro che rilanci la crescita e gli investimenti – ma tanto a Bruxelles come nella maggior parte della cancellerie europee questo è un problema secondario. Disoccupazione, recessione, povertà, queste sconosciute. E cosa, d’altronde, ci saremmo potuti aspettare da primi ministri che hanno sottoscritto il fiscal compact e tagliano la spesa pubblica proprio mentre l’economia reale si avvita?
La politica del vecchio continente è ormai diventata auto-referenziale, non si occupa più dei problemi reali, ma è tutta impegnata a salvarsi la faccia negli incontri internazionali, manco fossimo tornati alla diplomazia ottocentesca, tutta minuetti e incontri (e scontri) dietro le quinte. Soprattutto ci troviamo davanti a 27 politici che dovrebbero lavorare ad un obiettivo comune – la crescita e la prosperità dell’Europa – ed invece litigano in continuazione e non sono d’accordo su nulla. Ci sarebbe da chiedersi cosa ci stanno a fare insieme, se manca anche un minimo comune denominatore.
Lo spettacolo offerto è stato talmente squallido che ha fatto alzare la voce persino a Bersani. Sarebbe stata una buona notizia se il leader del Pd durante la campagna elettorale avesse proposto una visione innovativa della Ue. Invece il massimo che è riuscito fare è andare a Berlino a farsi benedire da Schauble come partner affidabile (leggi: fedele). Quello che più è mancato in questa campagna elettorale (con pochissime eccezioni, Rivoluzione Civile e Grillo) è proprio il dibattito sull’Europa, sulla sua crisi e sulle soluzioni proposte. A Roma come a Bruxelles si preferisce nascondere lo sporco sotto il tappeto. Mentre il continente affonda, la solita orchestra stonata continua a suonare.

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