domenica 3 febbraio 2013

La Costituzione, i suoi valori e la campagna elettorale
Di Simone Rossi 

La poca simpatia di una parte del Paese e della classe politica che ne è espressione verso la Costituzione, i principi di democrazia che essa esprime ed il suo legame inscindibile con la Resistenza è nota da tempo. Tuttavia è solo negli ultimi venti anni che abbiamo assistito al tentativo plateale di scardinare i principi dettati nella carta costituzionale e di rovesciare la scala di valori che bene o male era alla base della cosiddetta Prima Repubblica, con lo sdoganamento del principale partito neofascista, il MSI poi divenuto AN, ed il depotenziamento dell'antifascismo. Dalle potenzialmente eversive scempiaggini sui "ragazzi di Salò" all'affermazione di Beppe Grillo secondo cui il giudizio di merito sul fascismo non gli compete, sono trascorsi quasi due decadi. Venti anni in cui il lavoro, elemento fondante della nostra Repubblica e della nostra società come recita l'articolo 1 della Costituzione, è stato messo ai margini del dibattito pubblico ed i lavoratori ridotti in merce, in cui più volte si è tentato di porre la magistratura sotto controllo politico minando alla base quella separazione sei poteri essenziali per la democrazia, in cui sono stati sottratti i diritti più elementari agli immigrati e si è cercato di rendere accettabili le discriminazioni di genere e quelle basate sull'etnia, il credo religioso, l'orientamento sessuale e l'identità di genere. La Costiuzione ed i suoi principi sono essenzialmente messo da parte nella campagna elettorale, mente c'è chi strizza l'occhio ai fascisti, l'Associazione Nazionale Partgiani d'Italia ha prodotto un video con cui denuncia il degrado sociale e politico del Paese ed invita le forze politiche a riportare al centro del dibattito temi essenziali per la maggior parte dei cittadini. Il link è riportato qui sotto:

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Meno banchieri in politica!

di Nicola Melloni
da Liberazione

«Allontanare la finanza dalla politica» è stato l’urlo di dolore di Bersani, attaccato nuovamente da Monti sull’affaire Mps con un grido di segno opposto: meno politica in banca, con un chiaro riferimento ai diversi scheletri negli armadi del Pd. E di problemi, in effetti, ce ne sono da entrambi i lati.
Che il partito maggiore uscito dal Pci abbia avuto, per molti anni, un rapporto quantomeno fuori luogo col mondo della finanza è un dato lapalissiano, sotto gli occhi di tutti. A cominciare naturalmente dalla merchant bank di Palazzo Chigi ai tempi di Massimo D’Alema, il paladino della centralità della politica. Peccato che, entrato da novizio nel mondo del business, la politica diventò la ruota di scorta della finanza, e i capitani coraggiosi si trasformarono in rentiers e speculatori. Non contenti della disfatta, quelli che erano allora Ds provarono a rifarsi con le banche, col connubio Consorte-Fassino e Unipol e molte delle Coop maggiori lanciate alla conquista della finanza, scegliendosi ancora una volta compagni di strada un po’ meno che raccomandabili. Ed intanto a Siena, con Fondazione e Banca controllati (o almeno così pensavano!) dai Ds e con dentro altre importanti Coop, si faceva muro contro Unipol, mentre si trafficava su sentieri paralleli con Antonveneta. Tutti sappiamo come sono finite entrambe le faccende. Che sembrano dunque dare ragione a Monti, con un ruolo della politica non proprio positivo.
Ma si tratta di un problema ben più complesso. Cioè quello di una politica che, persa autorevolezza tra i cittadini, i lavoratori, le imprese, cercava di riacquistarla dall’alto, provando a decidere le sorti del paese influenzando i consigli di amministrazione. Una sorta di modello dirigista, senza però nessun presupposto istituzionale e con in più la costante presenza di politici incapaci e manager infedeli. In questa maniera i supposti controllori, i politici, diventano in realtà catturati in una rete più grande di loro in cui il gioco veniva comunque diretto dai supposti controllati. Diventa altrimenti difficile da capire come, nel caso Mps, la politica potesse dare il via libera alla sciagurata acquisizione di Antonveneta che, proprio per le dimensioni dell’affare, non poteva più essere gestita dentro i limitati confini di Siena e della Fondazione. Credendo di dettare la linea, in realtà la politica accettava supinamente le regole fatte altrove, nel mare magno della finanza, dove la dimensione contava più della vocazione (leggi: del ruolo economico della banca) e dove i manager (leggi: il “compagno” Mussari) imbracciavano senza remore il modello d’azienda più spudoratamente neo-liberal, curandosi solo della massimizzazione dello share-holder value (spesso legato a doppio filo ai compensi dei dirigenti) piuttosto che della solidità e della crescita della compagnia.
Quello che ha tentato di fare la politica italiana (e non solo: basta guardare alla Spagna per capire immediatamente di non esser soli), in realtà, è stato semplicemente di cavalcare la tigre della finanza. Seguendo in questo il capostipite della cosiddetta Terza Via, quel Blair che ha portato la City al suo massimo splendore, sempre nella convinzione di averne il controllo. E di sicuro finché la bolla cresceva, anche a Londra, eran tutti, o quasi, contenti. Banchieri e bancari con conti in banca da capogiro, nuovi grattacieli, posti di lavoro, economia in crescita, mentre lo sporco (scandali, diseguaglianza sociale, comunità locali che andavano a picco) veniva nascosto sotto il tappeto. Salvo risvegliarsi un giorno e scoprire che nessuno controllava le banche che facevano i comodi loro, e continuano a farli. Basti pensare che solo negli ultimi due giorni assistiamo a Londra a due nuovi scandali, con i maggiori istituti di credito accusati di aver turlupinato piccole e medie imprese offrendo fregature sotto forma di derivati, e con Barclays coinvolta nell’ennesima truffa, questa volta per aver taroccato il valore delle sue azioni offrendo denaro in prestito ai suoi investitori per comprare azioni di Barclays stessa, un po’ alla moda dei furbetti del quartierino; in fondo tutto il mondo è paese!
Il problema sembra dunque andar ben al di là delle minuscole beghe di casa nostra – in cui però ci distinguiamo sempre con onore: finanza cattolica, grembiuli e compassi, sinistra alla moda… La realtà è che il mondo occidentale, quello per decenni contraddistinto dalla convivenza-collaborazione tra democrazia e capitalismo, ha allevato nel proprio seno una serpe che è ormai pronta a sbranarlo. Un sistema finanziario senza limiti e controlli contrapposto ad una politica debole e vile, in ginocchio davanti al potere del denaro transnazionale e incapace di regolarlo. Una situazione che, lo vediamo ogni giorno, porta alla crescita di un potere parallelo e nemmeno troppo occulto, quello dei mercati finanziari, che, oltre ad asservire e strangolare il capitalismo imprenditoriale, rischia di rendere sostanzialmente inutile la democrazia che scrive i compiti sotto dettatura. Ne consegue, infine, che l’iniziale grido di rabbia di Bersani, fuori le banche dalla politica, è sicuramente giusto. Peccato che venga da chi ha sostenuto un governo guidato da Mario Monti.

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La Corte dell'Efta da' ragione all'Islanda



di Nicola Melloni
da Liberazione

La sentenza dell’Efta (European Free Trade Association) di qualche giorno fa è un evento di primaria importanza che pare, almeno per ora, molto sottovalutato dai media italiani.
I fatti, prima di tutto: all’insorgere della crisi finanziaria, cinque anni fa, il primo paese a essere travolto fu l’Islanda il cui settore bancario, estremamente liberalizzato, aveva preso rischi fortissimi indebitandosi con l’estero, ed in particolare raccogliendo ingenti quantitativi di denaro con depositi per stranieri, soprattutto inglesi ed olandesi. Con il fallimento di pressoché tutte le banche, e, nel caso specifico, della Icesave, i depositi dei cittadini stranieri non furono protetti dal governo islandese (quelli degli islandesi invece sì) e dunque, per evitare problemi ulteriori, i governi di Londra ed Amsterdam decisero di ripagare le perdite incorse dai propri cittadini in Islanda, salvo poi rifarsi sul governo di Reikiavik per venire rimborsati. E, di fronte al rifiuto, per altro confermato per ben due volte da un referendum, portarono il governo Islandese di fronte alla corte dell’Efta che si occupa dei casi riguardanti l’Area Economica Europea (e non la Ue, di cui l’Islanda non è membro).

Il tribunale ha, tuttavia, dato ragione all’Islanda. I giudici hanno sentenziato che esiste sì un obbligo per ogni paese di mettere in piedi un sistema di garanzia dei depositi, ma in caso di eventi sistemici, come appunto la crisi finanziaria, non ci si può aspettare un'ottemperanza totale, soprattutto quando questa mette a repentaglio il corretto funzionamento del resto dell’economia.
Il punto è ovviamente controverso. Una garanzia statale sui depositi fa dormire sonni tranquilli ai risparmiatori, compresi, ad esempio, quelli di Mps. In pratica, anche se la banca fallisce, il governo protegge i conti bancari, evitando dunque ondate di panico e l’impoverimento dei cittadini coinvolti inconsapevolmente nelle disavventure della banca. Questo può sembrare ragionevole, se non fosse che, nel caso specifico, una compensazione delle perdite dei risparmiatori olandesi ed inglesi sarebbe costata oltre 12.500 euro per cittadino islandese. Il problema non era però la pretesa di due stati ricchi di rifarsi su un paese piccolo e debole, quanto piuttosto che questa pretesa seguiva un (supposto) dettato di legge che, per l’Ue, non garantisce i ricchi contro i poveri, ma più semplicemente difende il risparmio dei cittadini.

Tale situazione ci pone davanti ad un dilemma: se da un lato può sembrare giusto che non siano i risparmiatori a pagare per le colpe delle banche, dall’altro non pare neppure equo che l’intera collettività debba pagare conti salatissimi per le perdite di un gruppo particolare.

Al centro del problema, naturalmente, è la natura stessa del sistema bancario. Praticamente, tutti gli stati del mondo hanno un sistema di garanzia del risparmio (e la sentenza ha riaffermato che è indispensabile che questo esista), ma normalmente queste riserve ammontano più o meno all’1% del totale dei depositi. Quello che manca dovrebbe esser tirato fuori dallo Stato stesso, costretto dunque a pagare per il fallimento di una azienda privata (la banca) onde evitare le disastrose conseguenze economiche e sociali della perdita del risparmio privato. Nello stesso tempo, la difesa del risparmio diventa pure l’ennesima forma di protezione per il sistema bancario. Dati i costi esorbitanti per far fronte al fallimento delle banche, lo Stato è ulteriormente incentivato a salvare banche incapaci prima che esse falliscano.
La sentenza dell’Efta riporta dunque al centro del dibattito il ruolo economico, sociale e politico delle banche. Un tema finora accuratamente ignorato, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, che viene regolato dalle corti di giustizia invece che dai Parlamenti dei paesi coinvolti. Una politica miope che, rifiutandosi di svolgere i suoi compiti, scarica il barile senza neanche rendersi conto di creare le condizioni per altre ed ancora più gravi crisi.


fonte: http://liberazione.it/news-file/La-Corte-dell-Efta-d--ragione-all-Islanda.htm


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