giovedì 10 gennaio 2013

Gli aggiornamenti delle rubriche di RI

The City of London

La corruzione, la Cina e l'America: Sono anni che ci dicono che il modello cinese non è sostenibile nel lungo periodo, che non c'è abbastanza mercato e trasparenza e questi problemi rischiano di far schiantare la seconda economia mondiale [continua la lettura]

Le banche inglesi too big to fail e il mercato drogato:Ultimamente abbiamo parlato del ritorno in forza del monopolio nell'economia americana. Ma le altre economie occidentali non sono messe poi molto meglio, e questo è vero soprattutto nell'industria finanziaria. Se guardiamo al Regno Unito possiamo vedere gli effetti che questa concentrazione ha sulle operazione di mercato [continua la lettura]





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Una questione di classe

Nel vocabolario del pensiero unico che sottende al modello sociale ed economico in cui viviamo da circa trent'anni la parola 'classe' non è contemplata, o è relegata in un canto, esorcizzata. La narrazione di un mondo in cui non esiste alternativa al capitalismo ed alla finzione del libero mercato, non ammette l'esistenza di classi sociali, men che meno la possibilità di un conflitto di classe, la cui insorgenza comporterebbe una messa in discussione della narrazione stessa e fornirebbe la speranza, se non la prospettiva di un altro mondo, non imperniato sul denaro e sulla sua riproduzione. Ecco, quindi, che nel dibattito politico così come sui mezzi di comunicazione di massa si evita accuratamente di citare la classe, preferendo dar spazio alla finzione che ci vuole tutti classe media, con stili di vita, desideri ed ambizioni simili. Che ciò sia smentito dalla iniqua distribuzione della ricchezza, dalla crescente disparità tra ricchi da una parte e classi medie e basse dall'altra, poco importa, l'importante è non evidenziarlo.


La propaganda, il tentativo di ridurre la rappresentazione delle nostre società alla pallida copia di una pubblicità di merendine, possono poco di fronte alla dura realtà. Anni di precariato e di precarietà, gli effetti della crisi finanziaria, le politiche di riduzione della spesa pubblica vigliaccamente introdotte con la scusa del debito pubblico hanno la meglio e, seppure sussurrando, la coscienza della suddivisione delle nostre società in classi e dell'esistenza del conflitto di classe permane tra i cittadini. Nel Regno Unito, ad esempio, guadagna ampi consensi tra la popolazione l'idea che la coalizione di governo tra Conservatori e Liberaldemocratici rappresenti gli interessi della minoranza che detiene il potere economico e gran parte della ricchezza del Paese, nonostante i proclami del Primo Ministro secondo cui "siamo sulla stessa barca" in questa fase di crisi e di tagli. In Francia, il quotidiano l'Humanité ha pubblicato nell'edizione del 9 gennaio l'esito di un sondaggio commissionato all'istituto Ifop secondo cui il 64% degli intervistati ritiene che nel paese la lotta di classe sia una realtà: http://www.humanite.fr/m/politique/exclusif-lhumanite-la-lutte-des-classes-une-realit-512348

La coscienza del conflitto di classe non trova necessariamente uno sbocco in un movimento organizzato e radicato che promuova rivendicazioni collettive e nella riappropriazione dei diritti e degli spazi di democrazia erosi nel corso di tre decenni, tuttavia. Nell'ultimo quinquennio la maggior parte dei paesi europei occidentali ha visto manifestazioni e scioperi per la difesa del lavoro ed in protesta contro le politiche di riduzione della spesa pubblica e dello stato sociale, senza che però essi assumessero la forma della lotta ad oltranza. Nonostante la forte opposizione nelle piazze, i governi in carica hanno approvato le leggi antipopolari ed i cittadini sono tornati a casa, con le pive nel sacco. L'assenza di una proposta politica alternativa cui dar credito, il malcontento popolare finisce con cercare una sponda in quei sindacati e partiti progressisti che dagli anni '80 hanno preferito di concertazione e l'effimera "terza via" propugnata da statisti del calibro di Tony Blair e Massimo D'Alema, o in movimenti che alla critica, anche forte, della classe dirigente senza uscire dallo schema del modello capitalista liberista.


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21 punti per cambiare

Riproduciamo qui, pur con ritardo, un articolo di Angelo D'Orsi comparso su Micromega che segna alcuni importanti punti di orientamento per l'alternativa a sinistra. Una rotta da seguire per le prossime elezioni, ma soprattutto per i prossimi anni.

di Angelo d’Orsi
Non sono stato invitato ai grandi appuntamenti nazionali di Luigi De Magistris e di “Cambiare si può”: ho partecipato, domenica 16 dicembre, a Torino, all’assemblea provinciale di questo movimento, e sono in contatto con De Magistris e i suoi collaboratori. Sto a guardare, ascolto, rifletto, pronto a intervenire se capisco di poter essere utile. Se mi si chiederà (non si sa mai!) quali siano le idee che intendo portare avanti, sul piano dei contenuti, delle modalità operative, e della strategia in vista della partecipazione alle imminenti elezioni dell’auspicata Lista Civica Nazionale (d’ora in poi LCN), ecco un promemoria, in 21 punti, nella fiduciosa (ma anche preoccupata) attesa della contesa elettorale, prevista esattamente tra due mesi, il 17 febbraio 2013 (se il combinato disposto tra governo e Presidenza della Repubblica confermerà) alla quale ritengo occorra assolutamente andare uniti.

1. Non è vero che ci sia disaffezione verso la politica. C’è verso questa politica. C’è anzi un accresciuto bisogno e una conclamata richiesta di politica, ma radicalmente rinnovata. V’è altresì un rifiuto verso tutte le forme e le istituzioni che tradizionalmente identificano la politica. Si riffaccia la democrazia diretta, assembleare, e diffusa, fondata sulla partecipazione dei singoli, e la loro volontà di autorganizzarsi e associarsi. I referendum del 2011 sono stati un esempio straordinario in tal senso: devono essere un modello a cui guardare.

2. Tuttavia, la polemica verso la “politica politicante”, che unisce in un solo flusso di disprezzo, i politici professionali e i mestatori, gli onesti dirigenti con i malfattori che hanno usato i partiti, si è trasformata in un flusso oscuro di risentimento: l’odio per la “casta” è diventato un torrente fangoso, che insieme con una critica sacrosanta, porta confusione qualunquista, certo pericolosa. Eppure non si può chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie, lanciando anatemi: “populismo”, “qualunquismo”, “antipolitica”. Proprio nelle pieghe dell’ “antipolitica”, a ben vedere, sta generandosi una politica alternativa, che la LCN deve esprimere: una politica che realizzi quattro cambiamenti basilari: forme organizzative (con riduzione drastica dei costi), modalità (ossia le procedure, democratiche, diffuse, dal basso; e soprattutto trasparenti), linguaggi, volti, ossia il nuovo personale politico, le “candidature” per la Lista elettorale. Non è questione semplicemente generazionale, o di genere, anche se sono due elementi da tenere ben presenti, nelle pratiche di rinnovamento.

3. Si tratta però di rivolgersi non solo al “popolo della sinistra”, ma di fuoruscirne, allargando la platea a coloro che possono condividere contenuti “di sinistra”, senza provare ripulsa verso l’idea che tanti si sono fatta della “sinistra”, anche con l’aura di eterni sconfitti ed eterni divisi che alla sinistra si attribuisce. Anche in questo senso, i quattro referendum vittoriosi sono un esempio fondamentale: chi li ha votati non sempre, non necessariamente, era “di sinistra”, ma quei contenuti che il “sì” ha portato avanti erano precisamente di sinistra. Al popolo dei referendum, più che al popolo di sinistra, occorre rivolgersi.

4. Valorizzando i referendum, occorre insistere sulla tutela dei cosiddetti “beni comuni” (anche se è tempo forse di lasciar cadere questa etichetta troppo generica e onnicomprensiva, e in fondo un po’ usurata), a cominciare da quelli più elementari, il che significa il ricupero di interessi generali; quindi, il lavoro, innanzi tutto, con i diritti che gli sono connessi; e poi tutti i servizi per la collettività che corrispondono non solo a beni ma anche a valori di cui occorre dimostrare il carattere “dato” e irrinunciabile: ambiente, paesaggio, sanità, risorse naturali (aria, acqua, terra). Ma anche scuola (di ogni ordine e grado), trasporti, comunicazione, cultura. I beni sono spesso diritti, di cui abbiamo goduto nel corso della storia repubblicana, e che stanno tentando di sottrarci o di ridurre drasticamente. Questi servizi, beni, valori, diritti non possono esser considerati in termini di mercato: la logica costo/beneficio non può valere quando si tratta della salute dei cittadini, della loro istruzione, della loro mobilità, e di tutti i loro diritti fondamentali.

5. Un LCN che voglia proporre un’azione coerente con questi punti deve concentrare la sua attività progettuale su di un Programma base essenziale concentrato su queste aree: I) Legalità; II) Lavoro, sviluppo, fisco; III) Ambiente, territorio e paesaggio; IV) Salute; V) Educazione, cultura, informazione.

6. La premessa indispensabile di ogni politica rinnovata è la difesa della Costituzione, che si tratta di proteggere da manomissioni (inaccettabile l’inserimento del pareggio di bilancio nel testo costituzionale), ma anche da una sua interpretazione “disinvolta”, come si è visto nell’ultimo anno; infine la Costituzione non può essere relegata su un piano formale, e affiancata, di fatto, da pratiche alternative, che sono state chiamate “Costituzione materiale”.

7. Né si può dimenticare che il lavoro è menzionato nell’art. 1 della Costituzione. Esso deve essere al centro di ogni politica, perché è sul tema lavoro che si possono intrecciare una molteplicità di problemi, di carattere economico, sociale, giuridico, culturale. Occuparsi del lavoro significa battersi per il rispetto delle leggi (assunzioni regolari e non in nero, non attraverso il caporalato; protezione fisica e giuridica dei lavoratori, monitoraggio antimafia su imprese, e ciclo rifiuti); e battersi, in parallelo, contro i tentativi di smantellare il sistema di garanzie conquistato con lotte durissime, nel corso dei decenni, a cominciare dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

8. La tutela del lavoro e dei lavoratori, ma anche dei pensionati, spesso collocati nei gradini più bassi dell’umiliazione sociale, implica un riequilibrio sostanziale nella distribuzione della ricchezza sociale: il che vuol dire, semplicemente, restituire una parte cospicua del prelievo fiscale alle categorie che hanno subito, negli ultimi venti-trent’anni, un vistoso squilibrio a loro danno, e, con ogni mezzo possibile, dall’aumento di imposte, fino alla minaccia della nazionalizzazione, far pagare la crisi in atto, e lo sviluppo reclamato da tutti, a grandi imprese, e grandi gruppi finanziari, a cominciare dalle banche, alle quali lo Stato deve chiedere la restituzione di una quota cospicua di quanto esso ha loro erogato almeno dal 2008 in avanti. E la lotta all’evasione ed elusione fiscale deve concentrarsi su questi settori. L’equità fiscale è il primo parametro della civiltà di un Paese, ma anche il primo strumento per l’efficienza della Pubblica amministrazione.

9. Ma difendere il lavoro implica battersi per il rispetto ambientale e della salute dei lavoratori e della cittadinanza. Mai più si deve accettare il ricatto della contrapposizione lavoro/ambiente, lavoro/salute, lavoro stabile/salario decente. In realtà oggi non si tratta neppure più di contrapposizioni alternative, ma di endiadi: lavoro precario, basso salario; lavoro precario e in condizioni di ridotte tutele sulla salute; eccetera.

10. In tal senso le “grandi opere” appaiono quasi sempre grandi inganni, grandi devastazioni, e grandi speculazioni per pochi, spesso al di fuori della legalità: l’Italia, nel suo complesso, ha bisogno urgente, drammatico, invece che di poche grandi opere, di innumerevoli “piccole opere”, che si occupino dei fiumi pulendone i greti, e evitando la cementificazione; la montagna, bloccando il disboscamento; la costruzione in zone a rischio, di edifici antisismici; il potenziamento del servizio di monitoraggio idrogeologico; le troppe sedi scolastiche pericolanti, mettendole a norma; le comunicazioni (su rotaia e su gomma) locali, da salvare e ripristinare… E gli esempi possono continuare all’infinito.

11. Quando si parla di lavoro, dobbiamo pensare tuttavia oggi, anche, e soprattutto, al NON lavoro: precario, in nero, sotterraneo; alle attese di chi il lavoro non trova, e presumibilmente non troverà; alla disperazione di chi il lavoro aveva ed è stato da un giorno all’altro licenziato, esodato, cassintegrato, provvisoriamente. Al lavoro semischiavile degli immigrati, al lavoro svolto dai precari della ricerca, non solo senza stipendio, ma ricattati, senza prospettive: privati della dignità gli uni come gli altri.

12. Esiste, va ricordata, la questione meridionale. Tutti presi negli ultimi vent’anni dalla “questione settentrionale”, abbiamo sottovalutato, o addirittura negletto il Sud, con tutto quanto la parola implica e significa. Occorre invece porre di nuovo, più che mai, davanti al divario che in ogni settore è andato crescendo tra Settentrione e Mezzogiorno, la questione meridionale al centro dell’agenda politica e anche di quella culturale¸ perché è sempre dalla cultura, dal “fattore C”, come “Cultura”, che occorre partire.

13. Più in generale, va sottolineata l’importanza dei settori formazione, ricerca, cultura. Soprattutto occorre sviluppare, difendere, e rilanciare il sistema educativo: dalle Elementari all’Università. La “riforma della scuola” unico frutto del Governo Berlusconi Non a caso. Occorre un impegno a cancellarla. E a occuparsi seriamente, in ogni senso, della scuola, fondamento primo della società. Il sistema educativo nel suo insieme deve essere restituito alla sua missione di formazione del pensiero critico. Non una scuola azienda, non una università piegata al mercato, ma una educazione funzionale soltanto alla formazione dei cittadini, a far loro ricuperare un ruolo di cittadinanza attiva, partecipe dei problemi della collettività. Valorizzare il lavoro degli insegnanti, formarli meglio, restituire il giusto posto all’educazione musicale e all’istruzione artistica.

14. Il precariato nell’università e nella scuola rappresenta oggi una vera emergenza nazionale. Stiamo assistendo inerti a una vera e propria guerra contro una intera generazione: la fuga dei cervelli all’estero è una realtà drammatica a cui occorre porre rimedio subito. Occorre programmare concorsi, assunzioni di chi è dentro ma in modo instabile, o, nell’università e nei centri di ricerca, senza alcun contratto, senza stipendio. Si tratta di decine e decine di migliaia di giovani ed ex giovani che dovrebbero rappresentare la futura classe dirigente. E li umiliamo, e li costringiamo a fuggire lontano, per poter ottenere quel riconoscimento morale e materiale che qui non trovano.

15. Di questo si parla poco, come di tanti altri temi, nel dibattito pubblico, perché una informazione che è corriva al potere, che è intricata in esso, ha fatto in modo che al dominio dei padroni delle imprese, ha corrisposto una loro egemonia, attraverso un’opera costante e consapevole di menzogna, o di occultamento della verità, in particolare di tutte le verità che potevano suscitare problemi seri nel blocco sociale al potere.

16. Parlando di lavoro, occorre, far cadere il pregiudizio lavorista/industrialista/sviluppista. Occorre seriamente porsi il problema di uno sviluppo sostenibile se non di una “decrescita felice”. In ogni caso, esiste un lavoro altro, al di là dei settori meccanico, tessile, chimico e così via. In Italia è il patrimonio paesaggistico, artistico, culturale il vero giacimento da sfruttare: questo ambito implica protezione, ricupero, valorizzazione, ma può dar vita a nuove professioni, alla creazione di lavoro utile e prezioso.

17. Oggi e tanto più in prospettiva questi sono i comparti sono decisivi per aiutare tutti noi a difenderci. Si pensi all’importanza delle occupazioni dei luoghi della cultura destinati ad essere snaturati, scempiati, distrutti: il Teatro Valle a Roma, il Teatro Garibaldi e i Cantieri della Zisa a Palermo, il teatro Marinoni a Venezia, il Teatro Coppola a Catania, il Macao a Milano, la Verdi 15 a Torino… Da questi luoghi giunge un messaggio forte che va raccolto e rilanciato con altrettanto vigore se se si riuscirà e anche se non si riuscirà a portare in Parlamento rappresentanti della LCN: la cultura è il luogo e lo strumento possibile di un nuovo Risorgimento, capace di aiutare nella ricostruzione di un tessuto morale collettivo, di combattere la disgregazione sociale. Oltre a mettere in moto economie, è attraverso il lavoro culturale che si può riattivare senso civico, offrendo intrattenimento di alto profilo. Si è parlato giustamente di “rinascita culturale”, come volano della rinascita dell’intero Paese. “La cultura non si mangia”, aveva sentenziato un ex ministro. È vero, non si mangia, ma la cultura fa mangiare. E senza cultura non ci può essere economia. Né politica.

18. Una nuova politica deve tesaurizzare l’esperienza dei movimenti, senza apologie dello spontaneismo, ma deve essere anzi consapevole che le forme organizzate sono essenziali, l che non deve riportarci al verticismo, a procedure nascoste, a decisioni assunte da tre persone rinchiuse in una stanza, in segreto.

19. Occorre, però, lavorare per mettere da parte preclusioni, esclusioni, pregiudiziali; l’unità di chi condivide i punti fondamentali sopraindicati, e i tanti altri possibili ad essi connessi, deve essere un obiettivo in grado di impedire che le differenze (di esperienze individuali, collettive, associazionistiche, sindacali, partitiche, di movimento…) siano vissute come ostacoli invece che arricchimento reciproco. I partiti ancora vigenti, che hanno in questi anni respinto prima il berlusconismo e il leghismo, e quindi il montismo, devono uscire dalla loro autoreferenzialità e lavorare in rete, con i movimenti territoriali e non: devono dialogare con gruppi e gruppetti, con le miriadi di forze sparse, spontanee, creative: apprendendo da loro, per rinnovarsi. Non è richiesto che si sciolgano, ma devono rinunciare alle loro “identità”, almeno ai fini di una presenza forte nelle liste elettorali, senza rinnegare il proprio patrimonio ideale, il proprio bagaglio storico, e anche il proprio orgoglio, per diventare parte integrante della LCN.

20. Infine, come dovrà essere impostata la “nuova politica” per la LCN? Essa deve passare certo per l’uso massiccio della Rete, ma senza farne un feticcio. Non dimentichiamo che esistono gli individui, donne e uomini, vecchi e giovani, “in carne ed ossa”. Accanto alla piazza virtuale, non si trascuri la piazza fisica, non si dimentichi, parlando ad avatar nell’etere, la dura (e meravigliosa) materialità delle persone. Le pratiche referendarie hanno ridato fiato e centralità all’agorà: abbiamo assistito a un vero “ritorno della piazza”, e occorre conservare questo come un dato irrinunciabile. La piazza ha significato certo anche violenze inutili e dannose da parte di qualcuno, ma soprattutto un altrettanto intollerabile esercizio di violenza da parte delle “forze dell’ordine”, che come in anni lontani sono apparse forze dell’ordine capitalistico, cancellando decenni di lotte per la democratizzazione dei corpi armati.

21. La politica degli ultimi anni ha sofferto di scarsa capacità di ascolto. E di modesta capacità prospettica. La politica è invece l’arte di guardare lontano, e se si crede in un progetto come quello della LCN bisogna lavorare pensando di continuare anche dopo le elezioni, quale che sia il loro esito. Una forza collettiva, che superi le tentazioni identitarie e rompa antichi e nuovi steccati, e unisca le diverse componenti di coloro che non ci stanno a chinare la schiena davanti alla politica che coniuga austerità e autoritarismo (la politica “austeritaria”), e che vogliono lottare contro le disuguaglianze, e in difesa della Costituzione, dell’ambiente, dei beni culturali, del tessuto economico sano; una forza che voglia rappresentare i “subalterni”, gli schiacciati dai grandi potentati economici, gli umiliati ed offesi, deve sapere fare questo: guardare negli occhi le persone, e ascoltare la loro voce.


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