martedì 8 gennaio 2013

Se la politica si riduce ad agende e proclami

di Guido Rossi
da Il Sole 24 Ore

Che la vita politica italiana, in attesa delle elezioni, sia ormai ridotta in agende, di vario contenuto e stile, di candidati politici o di rappresentanti della fantomatica società civile è certamente fenomeno singolare e in parte anomalo. Al crollo delle ideologie che, nel bene e nel male, presentavano modelli e programmi politici, adattati e propugnati dai cittadini, si sono ora sostituite agende che sanno più di proclami che di programmi.
E poi, queste agende per simulazioni d’intenti riempiono, ognuna con i modi suoi e i suoi sostenitori, i mass media e i social network, sempre più condizionatori decisivi dell’opinione pubblica e delle volontà degli aventi diritto al voto elettorale democratico. Fra tali agende la più seguita e commentata è certamente quella del dimissionario Presidente del Consiglio Mario Monti. Agenda non a caso esaltata da un imprecisato e confuso "centro" politico e benedetta dal Vaticano, fors’anche perché il lemma latino "agenda" indicò nel cristianesimo antico il grande libro della messa e ha preso poi il suo attuale significato nella metà del ‘600 nella nostra lingua dalla locuzione ecclesiastica "agenda diei", cioè "gli uffizi del giorno".
Questa agenda centrista di Mario Monti dà quasi l’impressione di essere impermeabile, quasi ad ulteriore compenso della benedizione ricevuta, a qualsiasi principio di laicità dello Stato, dimentica in un sol colpo dell’eredità del nostro Rinascimento, e del contributo all’Illuminismo, nonché degli attuali fermenti ed esigenze di un Paese sempre più multietnico e multiculturale, ancorché non si voglia in Europa rinfocolare i presupposti religiosi della guerra dei trent’anni. Ma essa risulta poi altresì distratta, se non per uno scadente riferimento, rispetto ai principi fondamentali della democrazia costituzionale.
La stessa "salita in politica", confusa nelle variegate funzioni e benemerenze, sembra accoppiarsi ad un singolare criterio di scelta dei candidati della propria lista elettorale. Infatti, i titoli delle loro ammissioni e le cause di ineleggibilità e incompatibilità, in evidente sovrapposizione all’art. 66 della Costituzione, che li dovrebbe vedere giudicati da ciascuna Camera, saranno sottoposti ad una preventiva "due diligence" del manager Enrico Bondi. Fuor dell’uso improprio delle espressioni straniere, i delegati a rappresentare il Governo dei cittadini saranno dunque scelti con il giudizio di un nuovo "Capo azienda" lontano e fuori della politica?
È forse allora finalmente tempo che chi ne ha l’autorità spieghi che lo Stato non è un’azienda, che la politica non è una branca dell’economia aziendale, che la meritocrazia, i cui criteri sono sempre più discutibili, porta all’oligarchia di élite, che promuovono gigantesche inuguaglianze e difettano per loro natura di cultura democratica. Non è quindi un caso che nell’agenda Monti il benessere dei cittadini e l’economia sociale di mercato, finora soffocati dalla politica dell’austerità e del rigore, tanto impietosa quanto discutibile, non siano previsti ed attuati attraverso provvedimenti a tutela dei fondamentali diritti (lavoro, istruzione, salute), nei quali si realizza la democrazia costituzionale.
E poi, come ha giustamente rilevato Barbara Spinelli su La Repubblica, il titolo stesso dell’agenda: "Cambiare l’Italia, riformare l’Europa" dovrebbe essere modificato in "Cambiare l’Europa per cambiare l’Italia". Non va dimenticato infatti che i mali dell’Italia, pur in sé tutt’altro che trascurabili, sono nell’ultimo anno dipesi in gran parte da una difettosa e pericolosa struttura politica europea, la quale ha solo potuto parzialmente bloccare, per merito della Bce, la devastante crisi depressiva dei vari Stati membri, fra cui il nostro. L’Unione Europea si presenta infatti oggi come una struttura tecnocratico-amministrativa, che non ha ancora come fondamento né un popolo europeo né una nazione degli europei. Non è sufficiente allora semplicemente riformare l’Europa, ma è necessario cambiarla.
Un recentissimo articolo sull’Economist ha infatti paragonato l’attuale situazione del l’Unione Europea a quella del Sacro Romano Impero. Il parallelismo dovuto tra gli altri allo storico Peter Claus Hartmann, è per molti versi inquietante. L’impero, anche dopo la defenestrazione di Praga, che dà inizio alla Guerra dei trent’anni tra gli Stati cattolici e quelli protestanti, si chiude con la pace di Westfalia, nel 1648, nella totale incapacità di siglare un’unità politica europea, sicché finisce per scomporsi in frammentati Principati geopoliticamente irrilevanti. Nella metà del diciottesimo secolo, Austria e Prussia, che cercano di ridurre gli altri territori ad una "terza Germania", sono ulteriore fonte di destabilizzazione. Ed è in questo paragone che ritengo oggi sconveniente un’adesione italiana all’agenda Schäuble, che prevede un supercommissario per bloccare i bilanci degli Stati membri irrispettosi delle regole sul deficit.
Senza continuare con ulteriori paragoni, sembra opportuno che, se non vuole dissolversi, come Sacro Romano Impero, preda poi facile di Napoleone, l’Europa debba democraticamente cambiare privilegiando l’elemento federalistico su quello statale, sia nella sua organizzazione, sia nella formazione della sua volontà democratica e nel modo di agire dei suoi organi centrali. Lo stesso Parlamento europeo non può rappresentare ciò che non è e ciò che ancora non esiste: né il popolo europeo, né una sfera pubblica politica europea, che decida aldilà dei confini nazionali le questioni decisive per la sua sopravvivenza.

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La lezione di Obama

di Nicola Melloni 


da Liberazione

L'accordo sul fiscal cliff e le scelte europee

Proprio in extremis, quando pareva ormai sicuro che l’economia americana potesse cadere nel temuto burrone fiscale, Obama è riuscito a strappare un accordo, seppur ancora temporaneo, tra Democratici e Repubblicani. Il fiscal cliff era stato un escamotage assurdo, concordato un anno e mezzo fa, per consentire al governo di innalzare il debito pubblico, che in America è determinato per legge. Non riuscendo a trovare una mediazione su nessun punto rilevante di politica economica, Democratici e Repubblicani avevano stretto un patto che avrebbe scontentato tutti: più tasse per i ricchi e il ceto medio accompagnati da gravosi tagli di spesa pubblica, una sorta di austerity all’americana che avrebbe riportato l’economia Usa in recessione.
Da un anno e mezzo a questa parte le posizioni non si erano riavvicinate più di tanto. I Repubblicani, sobillati dal Tea Party, erano soprattutto impegnati a mantenere gli sgravi fiscali introdotti da Bush ed allo stesso tempo a ridurre notevolmente la spesa pubblica vista come origine principale del debito americano. I democratici invece pretendevano un aumento delle tasse per i ricchi e tagli meno massicci di spesa. Per il momento sembra aver decisamente prevalso la linea di Obama e dei democratici. Le tasse per i ceti più ricchi sono state infine alzate (anche se solo oltre la soglia dei 400mila dollari, mentre i Democratici chiedevano che le aliquote più alte colpissero i redditi da 250mila dollari in su) mentre la discussione sui tagli di spesa sono state rimandate di due mesi.
Obama, al secondo mandato e ormai scafato nei trucchi della politica di Washington, è riuscito a far leva sulle divisioni all’interno del Great Old Party. I conservatori “tradizionali” si sono rifiutati di piegarsi alla logica del “tanto peggio, tanto meglio” degli estremisti del Tea Party che hanno infatti votato contro l’accordo. I Tea Party hanno un approccio ideologizzato fin quasi al fanatismo e vogliono ridurre a tutti i costi il peso dello Stato in economia – dunque poche tasse, e spesa pubblica bassissima, a cominciare dalla riforma sanitaria e dalla social insurance. E non erano disposti a nessun compromesso anche a costo di far sprofondare l’economia in recessione. Ma l’establishment repubblicano e soprattutto i suoi grandi finanziatori non potevano seguirli su questa strada. In fondo neanche i falchi di Wall Street che troveranno una busta paga un poco più leggera a fine anno, erano disposti a tollerare una politica economica suicida che, con la recessione, avrebbe portato ad una riduzione dei profitti. Ed in cambio del loro silente consenso, le grandi corporations, a cominciare da Goldman Sachs, hanno ricevuto da Obama sgravi fiscali e sussidi per un valore di 205 miliardi di dollari.
Sfruttando dunque le divisioni nel campo avversario Obama è riuscito, almeno per il momento ed in attesa delle decisioni sui tagli di spesa, a portare a casa una vittoria piuttosto netta. In realtà questa vittoria è più che altro simbolica e difficilmente cambierà i meccanismi di distribuzione della ricchezza. D’altronde durante il primo mandato di Obama le corporations americane hanno visto la quota profitti ritornare oltre la soglia pre-crisi mentre la quota salari è in calo verticale. E tale situazione non cambierà di certo con la modesta ripartizione fiscale.
Ma anche i simboli sono importanti. Chiedere ai ricchi di cominciare a pagare di più è senza dubbio un primo passo nella giusta direzione. Un primo passo nell’identificazione dei problemi strutturali del capitalismo neoliberista che ha tentato di combinare diseguaglianza e democrazia tramite il ricorso alla leva finanziaria, creando ricchezza fittizia per compensare la perdita di ricchezza reale per i lavoratori. E dunque un ribilanciamento del budget pubblico in maniera meno classista è motivo di soddisfazione.
E soprattutto dovrebbe far riflettere le cancellerie europee ed i partiti che, più a torto che a ragione, ancora oggi si definiscono socialisti. A cominciare dall’Italia, paese in cui, lo sappiamo bene, il debito è arrivato ormai a soglie insostenibili ma anche paese in cui la ricchezza privata rimane altissima e concentrata nelle mani di pochi. Non solo dunque un sentimento di equità ed etica, ma anche la logica economica dovrebbe portare il futuro governo ad andare proprio lì, tra i più abbienti, a cercare le risorse per la cura ed il rilancio della nostra economia. A cominciare da una patrimoniale pesante e da un riordino delle aliquote Irpef in maniera da colpire contemporaneamente patrimoni e redditi più alti, detassando contemporaneamente i redditi più bassi, il lavoro e gli investimenti. Per una volta, ispirarsi al modello americano non sarebbe poi così male.

fonte: http://www.liberazione.it/news-file/La-lezione-di-Obama.htm



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