mercoledì 29 maggio 2013

martedì 28 maggio 2013

Diritti da romanzo epistolare

Di @MonicaRBedana

Vabbè che all’origine di tutto c’è sempre un manoscritto.
E’ l’artifizio, il pretesto, il nome della rosa.
Ma non può essere una cosa seria che le leggi per i diritti delle coppie dello stesso sesso vengano ora scritte all’improvviso sul filo dello scambio epistolare lacrimogeno  tra un adolescente wertheriano e la Presidente della Camera. E che il giorno dopo, il giornale che ospita la schermaglia dichiari che perfino il PDL si è finalmente convinto e convertito (e di sicuro è a sostegno di questa tesi che Galan, noto alfiere dell’apertura mentale e della tolleranza, fintamente rintuzza in radio quel Giovanardi a cui mai bisognerebbe porgere un microfono per il bene dell’umanità intera, non solo di genere. Patetiche macchiette).
E quindi si proclama un precipitoso lieto fine mediatico, e vissero tutti felici e contenti fino alla prossima rimbombante dichiarazione. A cui seguirà il solito nulla di fatto come un' eco lontana.




L'Italia contro la politica

Ha vinto il PD? Di certo ai democrats è andata molto ma molto meglio di quello che ci si aspettava. In testa in quasi tutti i comuni. Mica male. Ma da qui a parlare di vittoria, ce ne passa. Praticamente ovunque il PD ha perso voti, e non ne ha neanche persi pochi. Solo che gli altri ne hanno persi di più.
Il caso di Roma è emblematico.


Marino è riuscito nell'impresa mica da ridere di perdere 1/3 dei voti che Rutelli prese al primo turno. Insomma, un disastro a tutto tondo. A cui però gli altri guardano con invidia. Il Pdl ha dimezzato i suoi voti, un tracollo. In realtà però non è una sorpresa. Lo stesso Pdl aveva perso il 40% dei suoi voti alle elezioni politiche. Eppure lo si era accreditato di una grande vittoria. No, era stata una sconfitta clamorosa. Non vista solo dal PD e dal suo gruppo dirigente che hanno deciso di andare a fare un inciucione con un partito ormai derelitto.
La consunzione del PDL non è finita, nonostante la bombola d'ossigeno data da Bersani e soci. E questo ha favorito i democratici, pure in clamorosa ritirata. Per altro, emerge con forza un trend ormai consolidato negli ultimi 5 anni. Il PD nazionale e la sua dirigenza, quella che ha sostenuto Monti, quella che si allea con Berlusconi, quella che vota il fiscal compact, viene bastonata dagli elettori. Alle elezioni amministrative, invece, soprattutto con candidati di rottura (Pisapia, Zedda, Marino, ma anche De Magistris) la sinistra vince. Forse davvero esiste un problema di rottamazione della classe dirigente nazionale.
Quel che rimane, in ogni caso, è una Italia allo sbando, in cui il sistema politico si sta trasformando, con una quota sempre maggiore di elettori che si allontana dalla vita democratica. Insomma, si tratta di una crisi organica, per dirla con Gramsci. Tutta la vecchia classe dirigente annaspa, perde voti e legittimità. Ma una alternativa non si vede, come chiarito dal deludente risultato del M5S. Forse uno stop momentaneo, o forse era stato un fuoco di paglia quello delle politiche. Difficile da dire ora, di sicuro però una alternativa di sistema non emerge.
In tutto questo la sinistra, l'unica rimasta in Italia, traccheggia. Non va male, ma certo non sfonda, vista soprattutto la crisi del PD. Vendola infine inverte la tendenza che lo ha visto in costante arretramento negli ultimi due anni, raddoppiando i voti rispetto alle politiche, ma rimanendo ancora attorno al 5-6%. In diverse realtà locali, però, la sinistra di opposizione viene premiata, toccando o sfiorando il 10% a Siena e Pisa (senza SEL), Ancona ed Imperia (con un fronte unito). Bisognerà ripartire da questi dati per cominciare a ricostruire un vera opposizione.


A Bologna il PD dà i numeri

A Bologna si è votato per il referendum sui soldi alle scuole private. Un netto successo di coloro che li vogliono togliere (quasi il 60%) ma l'affluenza è stata bassa, poco sotto il 30%. Ed allora, tutti a parlare di affluenza bassa, bassissima. Addirittura di soldi buttati via per il referendum che non ha avuto seguito. Ma è andata davvero così?
Certo l'affluenza non è stata lusinghiera, ma le cose andrebbero messe nel giusto contesto. Per prima cosa guardiamo le forze in campo. Per l'opzione B, quella perdente, sono scesi in campo il Sindaco, il PD, il PDL, il Governo, la CEI, le associazioni industriali e commerciali, la CISL. Eppure non sono riusciti a motivare il loro blocco sociale di riferimento, che è rimasto a casa. Dall'altra parte c'erano il comitato referendario, SEL, Rifondazione, la FIOM. Il risultato dell'A (il 16% circa dei voti assoluti, tra il 22 ed il 25% se traslati sulle elezioni amministrative) va ben oltre la forza elettorale di quei soggetti. Dunque, se i numeri assoluti sono deludenti, lo sono quasi soltanto per il PD, il Sindaco e chi sosteneva che il modello Bologna funzionasse benissimo.
Per nascondere questo smacco, e per cercare di defraudare i referendari di una chiara vittoria, si tenta allora di concentrarsi sull'affluenza assoluta. Dimenticandosi però che a Bologna si votava per un referendum consultivo, con il Sindaco che aveva già detto a chiare lettere che se ne sarebbe comunque infischiato del risultato. In generale, poi, c'è una grande disaffezione per le tornate elettorali, giudicate a torto o ragioni inutili (e certo le parole del Sindaco Merola non migliorano la situazione). A Roma hanno votato a malapena il 50% degli aventi diritto, ma per il sindaco, una campagna che ha avuto una risonanza nazionale ben superiore alla consultazione bolognese. E nelle sedi del PD si canta vittoria per il risultato di Marino, pure con un crollo di voti rispetto a quelli presi da Rutelli (!!!!). Ma la partecipazione, si sa, conta solo quando si perde.
Ed infatti nel PD ci si dimentica che alle primarie - quelle che hanno mobilitato il popolo del centrosinistra, quello impegnato, quello attivo - a Bologna votarono 28 mila persone, 1/3 di quelle che hanno votato per il referendum. In entrambi i casi si tratta di partecipazione civica. In un caso è un successo, nell'altro un flop. Mah...
Ma la prova del nove arriva quando il segretario bolognese del PD sostiene che trattandosi solo di una piccola minoranza, il risultato non è significativo e dunque non vincola il Comune. Eppure a livello nazionale si è sostenuto che non si poteva non tenere conto del 22% di Berlusconi (che sul totale avente diritto, era circa il 16%...pensa un po', circa la % presa dai promotori del referendum!). E proprio su questa base si è cercato prima di votare Marini e si è poi scelto Napolitano e le larghe intese. A Roma, un 16% così importante da affondare 20 anni di pseudo-contrapposizione. A Bologna, un 16% che disturba l'oligarchia al comando.

lunedì 27 maggio 2013

Aznar e la discrezione degli ex

Di @MonicaRBedana


In Spagna gli ex hanno l’inestimabile virtù della discrezione.
Mai una parola dopo fine rapporto.

Parlo degli ex presidenti del Governo, che spariscono dalla vita pubblica e non emettono più nessun giudizio sulle vicende della politica nazionale o del proprio partito, in una mirabile consapevolezza della quasi sacralità del ruolo giocato nel Paese, che non si può confondere nella fiera quotidiana delle dichiarazioni e delle smentite, delle illazioni e dei suggerimenti.  E’ anche vero che in Spagna gli ex presidenti si contano sulle dita di una mano; se questo accadesse in Italia avremmo mezzo Paese muto (e ci farebbe solo bene, un po’ di decoroso silenzio).

L’eccezione esiste sempre e la incarna José María Aznar, a cui la Spagna duole molto e così l’ha fatto sapere al Paese in tivù –come un Monti qualsiasi, come l’amico Berlusconi- senza peli sulla lingua, secco, incazzato, irritante e tutto d’un pezzo, granitico com’è solo lui. Ha criticato ferocemente la politica del Governo, rassegnata, molle, priva di programmi; ed ha indicato la strada immediata da prendere, diminuire la pressione fiscale sulla classe media.
Ha fatto di più: ha insinuato il proprio ritorno in politica (non ha detto se sale o scende), obbedendo a ciò che gli ispirerà la coscienza, il senso di responsabilità verso il Paese ed il partito. Arriba España e olè.


L’avevamo intuito che Aznar si fosse incaponito a scegliersi Rajoy come successore proprio perchè un giorno, dal confronto tra i due, opposti in tutto, il Paese sentisse quella nostalgia insopportabile che a volte si prova per gli ex, quando ogni tempo passato ci sembra migliore. Ma prima di comporre precipitosamente un numero di telefono e spalancare la porta ai ritorni di fiamma disperati, dovremmo almeno riguardare certe foto: quella delle Azzorre, magari; o quella del G8 coi piedi sul tavolo di Bush, gli stivaletti texani col tacco, tratto distintivo di altri grandi uomini. O riflettere due minuti su quelle grandi balle e bolle immobiliari che ci ha raccontato. E decidere quindi che sul  fisico asciutto e la pancia a tartaruga spunta sempre quel baffetto sospetto. E cancellare il numero; anzi, buttare via il telefono.

Lo sterile dibattito sulle riforme istituzionali

di Nicola Melloni
da Liberazione

Fatte le elezioni, votato il governo e si ricomincia a parlare di riforme istituzionali. Per prima cosa, naturalmente, la legge elettorale, vedremo come. Ma non basta: bisogna fare una "legislatura costituente" per sancire il passaggio alla Terza Repubblica, dopo che già si era provato ai tempi del primo governo Prodi e poi ancora durante il quinquennio berlusconiano tra 2001 e 2006. Ovviamente con un nulla di fatto. Adesso, le cosiddette riforme, sarebbero ancora più urgenti, con la crisi economica e l’assedio della cosiddetta anti-politica. Si vuole il doppio turno per stabilizzare il Parlamento, si vuole il semi-presidenzialismo per rafforzare l’esecutivo. Si (voleva) il federalismo per avvicinare i cittadini alle istituzioni. Insomma, si spera di salvare il salvabile con le riforme dall’alto.
Ma si tratta solo di un tentativo disperato destinato, per l’ennesima volta a fallire. In Italia siamo un pò tutti ingegneri costituzionali, dato che è l’argomento preferito di politici e giornali da oltre vent’anni. Ma non abbiamo ancora capito come funzionano le istituzioni. Che non sono uno strumento neutro, applicabile in ogni circostanza, ma sono il prodotto dei rapporti di potere. E che non funzionano “a prescindere” ma si adattano alle circostanze.
Basta guardare alla legge elettorale, già cambiata due volte in vent’anni senza per questo aver minimamente migliorato la stabilità e la governabilità. Prima ci avevano detto che il maggioritario avrebbe dato esecutivi di legislatura, mentre invece le crisi di governo sono state frequenti quasi come durante la Prima Repubblica. E la situazione non è cambiata in meglio col premio di maggioranza, e non certo solo per il sistema regionale in vigore al senato. In realtà, i governi sono instabili perché il sistema politico è fragile e frammentato e i partiti sono deboli e privi di legittimità. Anche nel momento di massima bi-polarità, tra il 2001 ed il 2008, i partiti prendevano voti ma non erano in grado di organizzare il consenso. Erano legati a mini-partitini (basti pensare ai Mastella di turno) o più spesso a cacicchi locali che erano però indispensabili collettori di voto in alcune zone chiave (dal punto di vista elettorale) del Paese. E che godevano quindi di un potere di ricatto fortissimo, pronti sempre a ribellarsi o a fare il salto della quaglia quando scorgevano altre opportunità o, più semplicemente, quando venivano “comprati” politicamente in cambio di fondi, favori, commissioni o appalti.
Pensare di risolvere tale situazione con una nuova legge elettorale, tipo il doppio turno, è semplicemente utopico. Lasciamo perdere per un momento il fatto non da poco che in una situazione di un paese spaccato in tre non esiste alcuna legge elettorale al mondo che possa garantire la vittoria di uno sugli altri due e, soprattutto, la presenza di una maggioranza stabile in Parlamento. Se anche questo fosse possibile, il peso giocato dai potentati locali nella conquista dei seggi più a rischio (per altro, aumentati esponenzialmente visto che con l’arrivo del M5S non esistono più seggi sicuri) sarebbe nuovamente decisivo. Cosicché anche una maggioranza sulla carta sicura si rivelerebbe avere piedi d’argilla. Ne sia esempio lampante il suicidio del PD, il partito teoricamente più strutturato e solido, durante l’elezione del Presidente della Repubblica. Pur con i numeri nettamente a proprio favore, il PD è riuscito ad impallinare sia Marini che Prodi, rifiutandosi poi di prendere in considerazione Rodotà perché i franchi tiratori sarebbero addirittura aumentati. Si tratta, a tutti gli effetti, di un partito senza vera guida politica e dominato da interessi di corrente, particolari e locali.
Lo stesso discorso vale per le tante altre riforme di cui abbiamo sentito parlare e di cui abbiamo visto gli effetti in questi decenni. Tutti gli ultimi governi hanno governato a colpi di decreto e di fiducia, eppure ancora oggi si parla di più poteri per l’esecutivo, senza rendersi conto che i poteri ci sono ma la disorganizzazione politica e il dilettantismo della classe dirigente li rende fondamentalmente inutili. La regionalizzazione ha fatto esplodere, invece di ridurre, la spesa pubblica, con una classe politica che ha cercato di “comprarsi” i voti invece di proporre piani di rilancio e di riassetto sociale, con conseguente esplosione della corruzione. Le privatizzazioni hanno diminuito la competitività del sistema-Italia, invece di aumentarla, con i grandi imprenditori (dai Riva ai Benetton ai capitani coraggiosi) più attenti alla rendita che all’investimento. Non parliamo poi della riforma del mercato del lavoro applicata in un contesto di piccole e medie imprese (ma anche di grandi, basti pensare alla Fiat) che sono state incentivate a competere sul prezzo via salari più bassi, invece che sull’innovazione di prodotto – per cui invece era d’obbligo un maggiore intervento pubblico sulla scorta del successo dei distretti industriali degli anni 70. Per tutti gli anni 90 sono state create autority per rendere la politica terza rispetto al mercato, e poi sono state riempite (dalla Consob all’Antitrust) di personaggi improbabili, in carica non per portare avanti il cosiddetto “scopo istituzionale”, ma per servire il potente di turno. E potremmo continuare.
Il prossimo round di riforme, con un sistema politico ormai ridotto ai minimi termini, si annuncia ancora più inutile, se non catastrofico. Quello su cui bisognerebbe concentrarsi sono le domande sociali di cambiamento, la riorganizzazione degli interessi economici, politici, di classe e di sistema, la fine dell’oligarchia politica che non si cancella con le primarie ma con una ristrutturazione complessiva delle grandi organizzazioni sociali. Dimenticando una volta per tutte il mito della società liquida, perché in politica come in economia sono gli interessi materiali e la loro organizzazione a governare il sistema.

domenica 26 maggio 2013

Il referendum di Bologna per una scuola di serie A

La fortuna è di essere bolognese, anche se emigrato. Così, preso un aereo, posso tornare per votare al referendum sui finanziamenti alle scuole paritarie. Una scelta che posso così sintetizzare: da una parte le ragioni della logica, del diritto, della Costituzione e pure del buon senso. Dall'altra una campagna scorretta, sguaiata, da anni 50. Il Comune invita a votare B come bambini come se i promotori del referendum volessero male ai bambini. Li vogliono lasciare in mezzo alla strada, dicono. E quando mai?
Il Comune finanzia ogni anno le scuole private paritarie con 1 milione di euro. 600 euro a bambino, contribuendo alla retta per chi decide (o è costretto) di andare nelle paritarie. Nel frattempo,  a inizio anno, 400 bambini sono rimasti esclusi da un posto al nido, poi ridotti con i salti mortali a 100. Col milione di euro si garantirebbero nella scuola pubblica 300 posti aggiuntivi, dunque non ci sarebbero più bambini a casa. Il Comune sostiene che se venissero però tolti i finanziamenti alla private ci sarebbero molti altri bambini impossibilitati ad andare all'asilo, non potendosi permettere il costo aggiuntivo. Non ci sono però dati che supportano tale tesi, la % di bambini nelle paritarie è rimasta immutata prima e dopo il finanziamento pubblico.
Non basta: le scuole paritaria, al 90% confessionali, già ricevono finanziamenti pubblici con l'8 per mille. Eppure vogliono ancora altri soldi per funzionare correttamente. Semplicemente sono scuole inefficienti, che vorrebbero dare libertà di scelta, che si mettono in concorrenza col pubblico e trasformano l'istruzione in un mercato. Ma sono incapaci di competere nel suddetto mercato, ciucciano la mammella pubblica perché non sono in grado di competere in maniera efficiente.
Sarà dunque un problema loro reperire risorse aggiuntive o migliorare il bilancio per attrarre altri bambini non ricchi - a meno che l'insegnamento confessionale non sia un diritto solo dei più abbienti.
Il sindaco di Bologna ed il PD tutto, con l'aiuto pure del Ministro della Pubblica Istruzione, accusano i referendari di fare una campagna ideologica, quando è ormai chiaro che si tratta di una battaglia in difesa della Costituzione e della Scuola Pubblica. Soprattutto, il Comune non sembra accorgersi che la B che invitano a votare, è la B di business, quello che gli istituti paritari fanno sulla testa dei bambini e dei genitori bolognesi. Propagano la loro fede, ma non a gratis. Fanno pagare le famiglie e pretendono che paghino anche i contribuenti.
Merola si è, un pò pateticamente rivolto a coloro che una volta erano bambini bolognesi e ora sono genitori affinchè votino per il sistema Bologna, quello che garantisce il diritto all'asilo. Si dimentica, ahimè di dire, che quando quei genitori andavano all'asilo non c'erano i finanziamenti alle scuole private (iniziati nel 95, in concomitanza con l'Ulivo, sarà un caso...). Eppure il diritto all'asilo era garantito meglio di adesso.
Si informi, Merola, prima di fare figuracce.

venerdì 24 maggio 2013

A chi non piace la Democrazia.
Di Simone Rossi 


Nel linguaggio pubblico italiano ed occidentale, in particolare in quello attinente alla sfera politico-istituzionale, la parola democrazia è utilizzata frequentemente, per lo più come forma di marketing con cui zittire chi esprime opinioni o concezioni della società differente da quella dominate. Per decenni la parola è servita da marchio commerciale per il sistema capitalista occidentale in contrapposizione al modello sovietico, quasi ad indicare che lo spazio delle forze popolari nella dialettica politica ed lo Stato Sociale fossero insiti nel modello occidentale e non il risultato di rapporti di forza favorevoli alle classi subalterne; tant'è, una volta abbattuto il Muro di Berlino e venuto meno lo spauracchio comunista, chi detiene il potere economico si è ripreso quanto conquistato dai cittadini nel corso di un secolo almeno, ivi compresi gli spazi di agibilità democratica; l'unica forma di stato e di società che piace a chi detiene il controllo dell'economia è quello in cui il più forte, il più ricco, ha piena libertà di fare e disfare, libero dalla critica e dal dissenso, repressi dai cani da guardia a due zampe. Si tratta di un atteggiamento diffuso, latente, che trova riscontro nelle occasioni in cui figure pubbliche si sottraggono alle domande scomode dei giornalisti, quelli riescono ancora a volgere il proprio ruolo di informazione e di investigazione, che reagiscono in maniera stizzita di fronte al dissenso, alla critica argomentata, preferendo i monologhi ed i dibattiti ovattati in televisione. Un atteggiamento che ha trovato la propria massima espressione nella proposta lanciata da alcuni esponenti di destra in Parlamento di punire anche con la reclusione le manifestazioni di dissenso durante i comizi politici, in cui, va da sé, si può accettare solo folla plaudente ed in adorazione del Capo.

A questa concezione conservatrice, quando non reazionaria, della società non si sottraggono quelle forze politiche che si rifanno alla tradizione riformista o che propugnano nuove forme di partecipazione democratica. Nell'edizione di lunedì 20 maggio de l'Unità Emiliano Macaluso, storica figura del PCI e delle sue successive mutazioni genetiche, esprimeva il proprio disappunto per la manifestazione indetta dalla FIOM contro le politiche economiche italiane per il 18 maggio. La motivazione su cui Macaluso ha mosso la propria critica, per cui la FIOM in quanto organizzazione sindacale avrebbe sbagliato a mischiarsi con organizzazioni non sindacali, innanzitutto i partiti della Sinistra appare debole, sopratutto alla luce del fatto che tra i vertici della CGIL ed il partito di Macaluso è sempre esistito un rapporto organico e di convergenza politica, come dimostra il passaggio di molti dirigenti sindacali nelle fila del partito. Ciò che sembra realmente infastidire l'esponente democratico e molti altri suoi colleghi di partito è la possibilità che il dissenso, l'opposizione alle politiche moderate cui aderisce il PD possa organizzarsi e divenire sufficientemente visibile e forte da mettere in discussione la posizione dominante del partito nell'ambito del campo progressista. A confermare questa supposizione è l'accenno nell'articolo stesso alla questione del referendum bolognese sui contributi pubblici alle scuole materne private, bollato come manifestazione di estremismo di quella parte della Sinistra che non sa essere "responsabile".Paradossalmente quella che è una forma di partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni sembra non piacere a coloro che si dichiarano democratici già nella propria denominazione (Partito Democratico) nel momento in cui l'esito della consultazione potrebbe non collimare, nel caso bolognese, o non collima, come per il referendum sulla pubblicità dei servizi idrici, con i loro desiderata.

Il referendum bolognese avrà carattere locale ma ha assunto carattere nazionale durata campagna elettorale, con il pesante intervento di esponenti di spicco dei principali partiti di governo, quello delle cooperative, delle organizzazioni di matrice cattolica e della CEI. Più che i finanziamenti in sé, nell'ordine di circa un milione anni, o la "pura indipendenza" del sindacato, per ritornare al Macaluso di cui sopra, ciò che infastidisce e finanche intimorisce i Democratici è la democrazia stessa, intesa come partecipazione attiva dei cittadini della Cosa Pubblica, in autonomia dai partiti e dal controllo paternalistico di una classe dirigente autoreferenziale ed autoritaria. Esperienze come il referendum sulla scuola materna pubblica a Bologna, l’opposizione al progetto TAV in Valle di Susa, i movimenti per la tutela del territorio dalla costruzione di grandi opere invasive ed inquinanti e contro la proliferazione di basi ed installazioni militari (Vicenza, Sicilia) rappresentano piccole crepe nel monolite del pensiero unico che accomuna di oltre vent’anni post comunisti, ex democristiani, liberali e conservatori. Sono il sale della democrazia, non possiamo che auspicare si moltiplichino e siano il preludio per un cambio di direzione del pendolo della Storia.


Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto - 1970, E.Petri

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La cineteca politica di RI

Verso la fine degli anni '60 lo sceneggiatore Ugo Pirro ebbe l'idea di scrivere un film sul potere, della polizia e degli ufficiali del governo, e le sue aberrazioni. Quando ne parlo' con Elio Petri, il regista ne fu entusiasta. Ed entusiasta fu pure Volonte', in quel periodo in pausa dal cinema, quando il regista e lo sceneggiatore gli illustrarono il progetto.
Così nacque Indagine, Gran Premio della Giuria a Cannes nel 1970, ed Oscar come miglior film straniero nel 1971.

Di questo film quasi universalmente elogiato dalla critica, ed ancora oggi grande successo di pubblico, si e' già parlato e scritto tanto. Perché oltre ad essere un thriller, un noir, e' una lucida analisi dei fatti politici di quegli anni e dei loro moventi individuali. Parla di repressione preventiva da parte dello Stato come forma educativa, concetto che rispecchia il teso clima politico dei primi anni '70 sia in Italia (sono del 1969 sia le bombe che esplosero su 8 treni in diverse località, che la strage di Piazza Fontana a Milano), che in altri Paesi più o meno democratici, in cui la coercizione era considerata prima arma di difesa contro le rivendicazioni dei movimenti studenteschi ed operai.
Parla dei risvolti violenti e sadomasochisti della società, dove chi esercita il potere e' legittimato ad abusarne, e chi lo subisce ne e' interamente dominato.
E necessariamente il teatro di tutto questo non può che essere la capitale. Roma centro fisico di un potere che non a caso e' esercitato in maniera e con accento meridionale, per meglio prestarsi alle dinamiche borboniche di abuso, corruzione ed inefficienza.
La bella Roma di via del Tempio al ghetto (in cui avviene l'omicidio di Augusta Terzi nel film), di Campo Marzio e del Pantheon, oggi purtroppo invasa da manifesti e manifestanti di Forza Nuova, Fratelli d'Italia e figli di Storace, che si ritrova a scegliere il nuovo Sindaco questo fine settimana.
E se 'il popolo e' minorenne e la citta' e' malata', come nel discorso d'insediamento di Volonte' a capo dell'ufficio politico della questura, saranno i sempiterni er batman & co. a rimetterla in piedi?

Un dettaglio divertente sulle riprese raccontato dalla Bolkan e' che Petri invito' molto gli attori ad improvvisare. Ne' lo schiaffo che lei subì da Volonte' in una delle messinscene del delitto, o la sabbia da lei messa in bocca a lui in spiaggia, erano a quanto pare previsti. 

 Giulia Pirrone 








Pd style





giovedì 23 maggio 2013

23 Maggio 2013


Cineteca Politica di RI
di Giulia Pirrone


In occasione dell'anniversario della strage di Capaci di cui furono vittime Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della sua scorta, e per rinfrescarci la memoria in vista del processo sulla trattativa Stato- Mafia che si aprirà nei prossimi giorni, vi suggeriamo la visione due dolorosi documentari.

Il primo prodotto e trasmesso dalla RAI e' una ricostruzione del maxi processo del 1986, storico processo alla mafia che vanto' ben 475 imputati. I pentiti protagonisti Buscetta e Contorno, e le deposizioni di Pippo Calo' e degli altri imputati resero l'aula bunker un vero e proprio 'teatro giudiziario':







Il secondo, 'In un altro Paese' e' invece frutto di un'idea e produzione internazionale. Tratto da un saggio sulla mafia del giornalista americano Alexander Stille che, accompagnato dalla foto reporter palermitana Letizia Battaglia, ricostruisce il lavoro del pool anti mafia fino alle stragi del '92:





Giulia Pirrone

mercoledì 22 maggio 2013

Don Gallo che una sera d'inverno si toglieva il cappello davanti ai NoDalMolin

Di @MonicaRBedana


A Vicenza è primavera stentata, Don Gallo, e questa volta il magone, e grande, ce l’abbiamo noi.

Perchè senza la tua voce sarà infinitamente più duro far capire che l’Italia è una portaerei che va dalla Dal Molin a Sigonella, passando per Aviano. Farlo capire soprattutto a questo Governo a binario unico su cui si lancia inesorabilmente anche il TAV; a questo centrosinistra che continua a darsi delle gran pacche sui coglioni e, come ai tempi di Prodi, perde occasioni irripetibili per ascoltare la gente, i cittadini.

La piazza di Vicenza sarà più che mai presidio permanente di scambio, di incontro, di dialogo anche grazie a te; la città dove ci si ostina a voler piantare alberi su quel cemento che ci porta inondazioni un giorno sì e l’altro pure, ad opporsi ai Colli trasformati in campi di tiro, ad essere snodo delle operazioni militari di mezzo mondo. Lo dicevi anche tu che qui non c’è crisi di appartenenza perchè apparteniamo a questo territorio da difendere come l’utopia di Galeano, venti passi alla volta che si spostano venti passi in là. E noi dietro, a passo sicuro.
Era una sera di febbraio. Ma sarà sempre primavera a Vicenza, Don Gallo.



sabato 18 maggio 2013

Austerità: nuoce gravemente alla salute. Usare com cautela.
Di Simone Rossi 


A sostegno delle politiche di austerità, ossia di taglio della spesa pubblica e di quella sociale in particolare, i governi europei sostengono che sia un sacrificio dovuto per uscire dalla crisi e per il bene comune. Prendendo per buona questa affermazione, ci si chiede se il bene di ciascun cittadino si limiti al Prodotto Interno Lordo pro capite, la media del pollo tra chi è ultra ricco e tutti gli altri, o se invece il benessere generale non passi anche dalla qualità di vita e dalla salute dei cittadini. In realtà, le politiche promosse dai governi europei, indistintamente di centrosinistra e di destra, oltre a non supportare la ripresa della produzione di beni e servizi sono causa di un malessere esteso e della diffusione di epidemie, quali l'HIV o la malaria ad esempio, che fino a pochi anni fa erano sotto controllo. Un'analisi degli effetti prodotti dai tagli ai servizi pubblici e dal clima di instabilità economica è offerta da David Stuckler e Sanjay Basu, autori del saggio “The Body Economic: Why Austerity Kills", in un articolo apparso su The New York Times lunedì 13 maggio, che riportiamo integralmente di seguito. Partendo dai recenti casi di suicidio in Italia, Stuckler e Basu offrono un excursus su quanto accade in Grecia, dove la sanità pubblica è fatta a pezzi, e negli Stati Uniti, dove l'impiego di psicofarmaci è cresciuto con la crisi, e sostenendo la propria tesi con i dati pubblicati dall'ONU. A meno che l'ideologia neoliberista non renda incapaci di intendere e volere, ci sarebbe abbastanza materiale per mettere alla sbarra per crimini contro l'umanità la classe dirigente politica occidentale ed i suoi mandanti, coloro che controllano la finanza mondiale.

How Austerity Kills.
da The New York Times

EARLY last month, a triple suicide was reported in the seaside town of Civitanova Marche, Italy. A married couple, Anna Maria Sopranzi, 68, and Romeo Dionisi, 62, had been struggling to live on her monthly pension of around 500 euros (about $650), and had fallen behind on rent.

Because the Italian government’s austerity budget had raised the retirement age, Mr. Dionisi, a former construction worker, became one of Italy’s esodati (exiled ones) — older workers plunged into poverty without a safety net. On April 5, he and his wife left a note on a neighbor’s car asking for forgiveness, then hanged themselves in a storage closet at home. When Ms. Sopranzi’s brother, Giuseppe Sopranzi, 73, heard the news, he drowned himself in the Adriatic.

The correlation between unemployment and suicide has been observed since the 19th century. People looking for work are about twice as likely to end their lives as those who have jobs.

In the United States, the suicide rate, which had slowly risen since 2000, jumped during and after the 2007-9 recession. In a new book, we estimate that 4,750 “excess” suicides — that is, deaths above what pre-existing trends would predict — occurred from 2007 to 2010. Rates of such suicides were significantly greater in the states that experienced the greatest job losses. Deaths from suicide overtook deaths from car crashes in 2009.

If suicides were an unavoidable consequence of economic downturns, this would just be another story about the human toll of the Great Recession. But it isn’t so. Countries that slashed health and social protection budgets, like Greece, Italy and Spain, have seen starkly worse health outcomes than nations like Germany, Iceland and Sweden, which maintained their social safety nets and opted for stimulus over austerity. (Germany preaches the virtues of austerity — for others.)

As scholars of public health and political economy, we have watched aghast as politicians endlessly debate debts and deficits with little regard for the human costs of their decisions. Over the past decade, we mined huge data sets from across the globe to understand how economic shocks — from the Great Depression to the end of the Soviet Union to the Asian financial crisis to the Great Recession — affect our health. What we’ve found is that people do not inevitably get sick or die because the economy has faltered. Fiscal policy, it turns out, can be a matter of life or death.

At one extreme is Greece, which is in the middle of a public health disaster. The national health budget has been cut by 40 percent since 2008, partly to meet deficit-reduction targets set by the so-called troika —  the International Monetary Fund, the European Commission and the European Central Bank — as part of a 2010 austerity package. Some 35,000 doctors, nurses and other health workers have lost their jobs. Hospital admissions have soared after Greeks avoided getting routine and preventive treatment because of long wait times and rising drug costs. Infant mortality rose by 40 percent. New H.I.V. infections more than doubled, a result of rising intravenous drug use — as the budget for needle-exchange programs was cut. After mosquito-spraying programs were slashed in southern Greece, malaria cases were reported in significant numbers for the first time since the early 1970s.

In contrast, Iceland avoided a public health disaster even though it experienced, in 2008, the largest banking crisis in history, relative to the size of its economy. After three main commercial banks failed, total debt soared, unemployment increased ninefold, and the value of its currency, the krona, collapsed. Iceland became the first European country to seek an I.M.F. bailout since 1976. But instead of bailing out the banks and slashing budgets, as the I.M.F. demanded, Iceland’s politicians took a radical step: they put austerity to a vote. In two referendums, in 2010 and 2011, Icelanders voted overwhelmingly to pay off foreign creditors gradually, rather than all at once through austerity. Iceland’s economy has largely recovered, while Greece’s teeters on collapse. No one lost health care coverage or access to medication, even as the price of imported drugs rose. There was no significant increase in suicide. Last year, the first U.N. World Happiness Report ranked Iceland as one of the world’s happiest nations.

Somewhere between these extremes is the United States. Initially, the 2009 stimulus package shored up the safety net. But there are warning signs — beyond the higher suicide rate — that health trends are worsening. Prescriptions for antidepressants have soared. Three-quarters of a million people (particularly out-of-work young men) have turned to binge drinking. Over five million Americans lost access to health care in the recession because they lost their jobs (and either could not afford to extend their insurance under the Cobra law or exhausted their eligibility). Preventive medical visits dropped as people delayed medical care and ended up in emergency rooms. (President Obama’s health care law expands coverage, but only gradually.)

The $85 billion “sequester” that began on March 1 will cut nutrition subsidies for approximately 600,000 pregnant women, newborns and infants by year’s end. Public housing budgets will be cut by nearly $2 billion this year, even while 1.4 million homes are in foreclosure. Even the budget of the Centers for Disease Control and Prevention, the nation’s main defense against epidemics like last year’s fungal meningitis outbreak, is being cut, by at least $18 million.

To test our hypothesis that austerity is deadly, we’ve analyzed data from other regions and eras. After the Soviet Union dissolved, in 1991, Russia’s economy collapsed. Poverty soared and life expectancy dropped, particularly among young, working-age men. But this did not occur everywhere in the former Soviet sphere. Russia, Kazakhstan and the Baltic States (Estonia, Latvia and Lithuania) — which adopted economic “shock therapy” programs advocated by economists like Jeffrey D. Sachs and Lawrence H. Summers — experienced the worst rises in suicides, heart attacks and alcohol-related deaths.

Countries like Belarus, Poland and Slovenia took a different, gradualist approach, advocated by economists like Joseph E. Stiglitz and the former Soviet leader Mikhail S. Gorbachev. These countries privatized their state-controlled economies in stages and saw much better health outcomes than nearby countries that opted for mass privatizations and layoffs, which caused severe economic and social disruptions.

Like the fall of the Soviet Union, the 1997 Asian financial crisis offers case studies — in effect, a natural experiment — worth examining. Thailand and Indonesia, which submitted to harsh austerity plans imposed by the I.M.F., experienced mass hunger and sharp increases in deaths from infectious disease, while Malaysia, which resisted the I.M.F.’s advice, maintained the health of its citizens. In 2012, the I.M.F. formally apologized for its handling of the crisis, estimating that the damage from its recommendations may have been three times greater than previously assumed.

America’s experience of the Depression is also instructive. During the Depression, mortality rates in the United States fell by about 10 percent. The suicide rate actually soared between 1929, when the stock market crashed, and 1932, when Franklin D. Roosevelt was elected president. But the increase in suicides was more than offset by the “epidemiological transition” — improvements in hygiene that reduced deaths from infectious diseases like tuberculosis, pneumonia and influenza — and by a sharp drop in fatal traffic accidents, as Americans could not afford to drive. Comparing historical data across states, we estimate that every $100 in New Deal spending per capita was associated with a decline in pneumonia deaths of 18 per 100,000 people; a reduction in infant deaths of 18 per 1,000 live births; and a drop in suicides of 4 per 100,000 people.

OUR research suggests that investing $1 in public health programs can yield as much as $3 in economic growth. Public health investment not only saves lives in a recession, but can help spur economic recovery. These findings suggest that three principles should guide responses to economic crises.

First, do no harm: if austerity were tested like a medication in a clinical trial, it would have been stopped long ago, given its deadly side effects. Each nation should establish a nonpartisan, independent Office of Health Responsibility, staffed by epidemiologists and economists, to evaluate the health effects of fiscal and monetary policies.

Second, treat joblessness like the pandemic it is. Unemployment is a leading cause of depression, anxiety, alcoholism and suicidal thinking. Politicians in Finland and Sweden helped prevent depression and suicides during recessions by investing in “active labor-market programs” that targeted the newly unemployed and helped them find jobs quickly, with net economic benefits.

Finally, expand investments in public health when times are bad. The cliché that an ounce of prevention is worth a pound of cure happens to be true. It is far more expensive to control an epidemic than to prevent one. New York City spent $1 billion in the mid-1990s to control an outbreak of drug-resistant tuberculosis. The drug-resistant strain resulted from the city’s failure to ensure that low-income tuberculosis patients completed their regimen of inexpensive generic medications.

One need not be an economic ideologue — we certainly aren’t — to recognize that the price of austerity can be calculated in human lives. We are not exonerating poor policy decisions of the past or calling for universal debt forgiveness. It’s up to policy makers in America and Europe to figure out the right mix of fiscal and monetary policy. What we have found is that austerity — severe, immediate, indiscriminate cuts to social and health spending — is not only self-defeating, but fatal.

David Stuckler, a senior research leader in sociology at Oxford, and Sanjay Basu, an assistant professor of medicine and an epidemiologist in the Prevention Research Center at Stanford, are the authors of “The Body Economic: Why Austerity Kills.”

venerdì 17 maggio 2013

Svegliati e uccidi (Lutring) - 1966, Carlo Lizzani



Cineteca politica di RI

Lo scorso Lunedi si e' spento a Milano Luciano Lutring, famoso gangster rapinatore degli anni '60 che venne ribattezzato dalla stampa come 'il solista del mitra'.

La sua storia venne raccontata al cinema, quando ancora i fatti erano di cronaca nel 1966, da Carlo Lizzani in un instant movie che descrive e commenta le vicende del bandito e le ragioni della sua popolarità.
Il film fu scritto in collaborazione con Ugo Pirro (uno dei principali sceneggiatori di quegli anni, che lavoro' diverse volte con Elio Petri), e viene ancora oggi ricordato per la- sempre- impeccabile performance di Gian Maria Volonte' nel ruolo dell'ambiguo Commissario Moroni, e le musiche di Ennio Morricone.

Precursore del genere 'poliziottesco' se si guarda alle dinamiche bandito contro forze dell'ordine, il film ha anche un carattere noir, dato dalla mediocre personalita' di Lutring, bandito che non spara e che ruba per conquistare la cantante di un night club, un pesce piccolo del mondo del crimine la cui immagine e' pompata dai media per fare notizia e dalla polizia per depistare i pesci grandi della mala.

E' anche ben inquadrato il contesto consumistico di fine anni '60 che rende irrefrenabile la voglia di riscatto e di benessere, la fuga dalla vita media a qualsiasi costo per ottenere una vita agiata e ancor di più il suo status.

Nel film ebbe una parte il fratello di Volonte', Claudio Camaso, nel ruolo di Franco Magni.

Giulia Pirrone