giovedì 18 aprile 2013

Marini, il giuda


Con buona pace di quelli che ancora danno la colpa a Bertinotti.

Bello anche vedere come per il signor Marini la corsa al Quirinale sia un po' un mercato della vacche. A sto giro, pare, tocca a lui.


Marini: cosi' io e D' Alema facemmo cadere Prodi

da Corriere della Sera, 29 Maggio 2001
di Francesco Verderami

"Io, D' Alema e il complotto contro Prodi"

«E' vero, io e D' Alema complottammo contro Prodi». Ancora nessuno nel Palazzo aveva pensato di sollevare quel dito di polvere sotto il quale riposa il dossier sulla crisi che aveva travolto il governo dell' Ulivo. A suo tempo la vicenda era stata catalogata come un caso politico dai contorni poco chiari e pieno di indizi compromettenti, la cui riservatezza stava a metà strada tra il terzo mistero di Fatima e il segreto di Pulcinella. Fu durante una cena, alla vigilia della campagna elettorale, che Marini decise di sollevare quel dito di polvere, e a distanza di qualche mese l' ex segretario del Ppi conferma le parole pronunciate quella sera, «anche se bisogna dargli una valenza storica e non di cronaca. Perché io sono convinto che non bisogna disperdere il risultato della Margherita». Sarà, ma con quella storia l' Ulivo deve oggi fare i conti, da lì è chiamato a ripartire, dal 9 ottobre del 1998. «E' vero, io e D' Alema complottammo contro Prodi. Solo che io non mi sono mai pentito, Massimo sì. Ha provato perfino a riappacificarsi con Romano. Chissà, forse sperava di salvare palazzo Chigi. Che volete farci, uno il coraggio o ce l' ha o non ce l' ha». Un paio di commensali interruppero di colpo la masticazione, altri gli riservarono uno sguardo interrogativo. Marini non si curò e proseguì, disse che con Prodi «da quando era successa quella cosa», dai tempi del complotto insomma, «non ci parliamo più»: «Sì, ci siamo incrociati alcune volte a Strasburgo, ma non ci siamo nemmeno salutati. E' andata così». Marini ripetè a cena di non essersi pentito, «non mi sono pentito», perché in politica non esistono peccati, semmai progetti che non coincidono con progetti altrui e portano allo scontro. Pentirsi avrebbe significato rinnegare quel progetto che l' ex leader popolare aveva coltivato assieme a D' Alema, e sulla cui fine parlò più volte: «Fu incredibile come si comportò durante la partita del Quirinale». Per ripararsi dal freddo e dalla solitudine con cui Bruxelles accoglie gli europarlamentari, una sera Marini raccontò a un amico democristiano passato con il Polo che non avrebbe mai potuto perdonare D' Alema, «non si può perdonare un simile errore». L' asse tra i due era nato nei giorni delle trattative elettorali per la composizione delle liste del ' 96, si era poi saldato con l' avvento di Marini a piazza del Gesù ed aveva condotto l' allora segretario dei Ds a palazzo Chigi. A quel punto il Colle toccava al Ppi, «tocca a noi il Quirinale», annunciò pubblicamente Marini. A Bruxelles certe notti non passano mai: «Mi ricordo la cena a quattro. Io, D' Alema, Veltroni e Mattarella. "Siamo d' accordo, allora. Votiamo la Jervolino". Poi Massimo si fece convincere che era meglio eleggere Ciampi. Temeva forse di averlo come antagonista nella corsa per la premiership alle successive elezioni Politiche. Solo che così ruppe tutto e condannò anche se stesso alla sconfitta». Come un generale in esilio, Marini evitò quella notte di ricordare i propri errori, le tante zone d' ombra nella sua strategia, gli equivoci che aveva alimentato sulle proprie ambizioni personali mai smentite e celate dietro i tanti, troppi candidati popolari «che i Ds alla fine ti bruceranno», lo avvisò per tempo Cossiga. Così fu. Prodi lasciò che fosse Veltroni a organizzare la vendetta, sorrise ammiccando quando il successore di D' Alema a Botteghe Oscure gli disse che «non è ipotizzabile un popolare al Quirinale, non è questione di nomi, è che non possono pensare di ottenere anche quella carica. Sono già sovra-rappresentati rispetto alla loro reale forza». Quando Ciampi venne eletto, D' Alema inviò un biglietto: «Caro Franco, probabilmente in questo momento non capirai. Ma io l' ho fatto per l' Ulivo». Nella sua stanza a piazza del Gesù c' erano poche persone, alcuni dicono che Marini non commentò, altri raccontano di averlo sentito sibilare: «Ma quale Ulivo, l' hai fatto solo per te stesso». Tutti giurano di avergli visto stracciare la missiva. Per Marini giunsero momenti duri, le dimissioni da segretario del Ppi erano l' ammissione del fallimento nelle trattative per il Colle, più che la constatazione di una sconfitta elettorale alle Europee. Perché il «patto del Quirinale» con D' Alema non rappresentava solo una spartizione di potere e di poltrone, ma il suggello di un progetto politico con cui affermare il ruolo dei partiti nella coalizione e al di sopra della coalizione. Sarebbe stata la vittoria sugli ulivisti, la vittoria contro chi voleva togliere il trattino dalla parola centrosinistra, e cancellando quel trattino voleva cancellare le differenze, affermare il primato dell' alleanza sulle forze politiche che ne facevano parte. Per quanto bizantina apparisse la disputa, il confronto fu scontro di potere. Violento. E se è vero che «io e D' Alema complottammo contro Prodi», è altrettanto vero che Prodi quella sorda guerra la combattè. Anche se la perse per un voto alla Camera, quando chiese la fiducia per il suo governo nel pomeriggio del 9 ottobre ' 98. Conosceva da mesi il disegno degli «alleati», poco dopo l' ingresso dell' Italia nell' Euro aveva detto ai suoi che «contro di me è iniziata la caccia alla volpe. Stanno già ferrando i cavalli». Così si spinse a giocare d' anticipo. Nel giugno di quell' anno - per il voto sul Documento di programmazione economica e finanziaria - sapendo che Bertinotti stava per abbandonarlo, il premier tentò di conquistare i voti dell' Udr senza pagar dazio, «e questo giochetto Romano l' ha preparato da tempo», s' infuriò D' Alema, «perché da mesi inciucia con Cossiga», «perché punta a prepararsi una maggioranza di riserva», «perché i democristiani non cambiano mai». Quando il leader di An si alzò in aula alla Camera per attaccare «i puttani della politica» che abbandonavano il Polo, e disse che «Prodi si sente furbo ma è solo un doroteo», che «parla di bipolarismo ma maneggia il trasformismo», D' Alema si sfogò all' orecchio di Mussi: «Fini non ha torto». La guerra era di fatto iniziata. Botteghe Oscure e piazza del Gesù lavoravano alacremente per scalzare Prodi. Fu il Foglio ad anticipare la manovra: «D' Alema punta a palazzo Chigi». La smentita anticipò di due giorni l' idea lanciata pubblicamente da Marini: «Romano potrebbe andare a presiedere la Commissione europea». Il primo governo a guida post-comunista sarebbe nato il 21 ottobre del ' 98 e già il 18 settembre il leader del Ppi aveva stabilito che «Mattarella sarà vice premier a fianco di Massimo». Prodi sarebbe caduto il 9 ottobre e già a settembre emissari della Quercia avevano sondato gli alleati sul nome di D' Alema. «Lo sosterreste come capo del governo?», chiese Ruffolo lasciando di sasso il socialista Villetti. E mentre «il complotto» si realizzava, il premier giocò d' azzardo. «Ma io non mi comporto come quelli di palazzo Chigi che la sera chiedono i voti di Cossiga per salvarsi e la mattina dopo lo attaccano sui giornali», s' indignò l' allora segretario della Quercia. Peccato che Cossiga mantenne la promessa con Prodi: «Caro Romano, prima ti aiuto e poi ti fotto». Poi diede i suoi voti a D' Alema. Subito dopo lo scioglimento delle Camere, in piena campagna elettorale, il comunista Diliberto ha confidato che «D' Alema non voleva andare a palazzo Chigi in autunno, ma in primavera. Lui sperava che Prodi rimanesse al governo per completare la Finanziaria, in modo da succedergli l' anno dopo. Solo che Bertinotti e il premier bruciarono i tempi per bruciargli i piani». Quel pomeriggio del 9 ottobre, appena Violante annunciò il voto di sfiducia, Occhetto gridò in Transatlantico al «complotto che si è incarnato nelle manovre dei colonnelli dalemiani», gli ulivisti videro avvicinarsi le fiamme dell' inferno, «perché da oggi inizierà a sinistra un processo di balcanizzazione» fu il commento di Mussi, «e i morti si conteranno per le strade» concluse Diliberto. La sinistra sapeva che avrebbe pagato a caro prezzo quel passaggio, non immaginava quanto, «e se veramente esiste il paradiso - sorrise il veltroniano Leoni - noi ce lo saremmo già guadagnato». Perché da allora il centrosinistra non trovò più pace: la nascita dei Democratici, il fascista Misserville sottosegretario per un giorno, il D' Alema uno e il D' Alema due, il crollo alle Regionali, Amato e la battaglia su chi avrebbe dovuto guidare «il nuovo Ulivo», la doppia cabina di regia, le trappole a Rutelli, la vittoria di Berlusconi. Cossiga lo aveva preannunciato: «La maledizione del Tutankhamon di Bruxelles si abbatterà sui complottardi». «Non si può perdonare quell' errore di D' Alema», spiegò Marini nella hall dell' hotel di Bruxelles. E' dunque vero che i due complottarono, e che l' ex segretario del Ppi non si è mai pentito. Anzi, con Prodi l' ex leader di piazza del Gesù tornò a ingaggiare un duello a distanza, perché la scelta di Castagnetti alla segreteria del Ppi aveva come primo obiettivo agganciare i Democratici. «Dobbiamo accordarci con il somaro», diceva Marini. Che però temeva le mosse nell' ombra del presidente dell' Ue, ne vedeva la manona, il tentativo di impedire l' intesa per costituire la Margherita. Così, tra il serio e il faceto, un giorno Marini promise che «se a Bruxelles dovesse organizzarsi un complotto, io ne farò parte. Lì conto meno, è vero. Ma ci sarò. Invece di venire a pedalare in Italia, Prodi se ne stia in Belgio e lavori. Ho visto i voti che gli hanno assegnato alcuni giornali internazionali. Voti negativi? No, anzi, sono stati fin troppo generosi». A volte ci ripensa Marini. E non riesce a darsi pace di come D' Alema abbia distrutto quel progetto politico. «E' vero, complottammo contro Prodi. Solo che io non mi sono pentito. Lui sì, pensava forse di salvarsi». Invece non è accaduto, e da quando D' Alema non è più a palazzo Chigi, l' ex leader del Ppi ogni tanto si lascia andare a qualche puntura di spillo contro l' ex alleato: «Sta messo male nel suo partito, mi pare...». Se una dote si è portato appresso dalla sua storia sindacale, è quella della concretezza. Non gli piacciono gli scenari arzigogolati, quei disegni strategici fatti di tasselli che poi non stanno insieme. Fino all' ultimo tentò di tenere con sé il suo successore alla guida della Cisl, e quando non ci fu più niente da fare disse che «D' Antoni è troppo ambizioso», e che «la troppa ambizione può essere nociva. Prendete D' Alema...». Quando durante la campagna elettorale seppe che l' ex premier diessino si incontrava con Andreotti per parlare di un futuro, ipotetico, nuovo centrosinistra ebbe un' impennata: «Ancora con ' sta storia che Berlusconi non dura, che è transitorio, che un pezzo di quei voti di centro verrà di qui... Sono sette anni che dicono sempre le stesse cose, sono sette anni che Berlusconi è ancora là». Ora che il centrosinistra deve accettare la sconfitta subita dal Cavaliere «transitorio», ora che deve prepararsi a fare opposizione al governo del centrodestra, ora si solleva quel dito di polvere sulla vicenda che frantumò l' Ulivo. «E' vero, io e D' Alema complottammo contro Prodi», ammette Marini. Il punto è che non fallì allora solo Prodi e il suo disegno, fallì anche il progetto alternativo. Sale il sipario sulla Quattordicesima legislatura, l' Ulivo deve ancora fare i conti con il suo recente passato

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