lunedì 4 giugno 2012

Perché l'edificio europeo scricchiola

Di Nicola Melloni

In Europa, la gestione autoritaria e antidemocratica della crisi economica ha generato una crisi di legittimità delle istituzioni nazionali e continentali
Le elezioni che si sono svolte in vari paesi europei nelle ultime settimane hanno mandato segnali molto precisi seppure, a volte, contrastanti. Un po’ ovunque sono stati puniti i governi in carica, e questa non è una sorpresa – da sempre, quando l’economia è in recessione o stagnante gli elettori tendono a premiare le opposizioni. Come avrebbe detto Clinton: it’s the economy, stupid! E in questa ottica si potrebbero valutare i successi di Hollande in Francia e la batosta della CDU nelle elezioni regionali tedesche.
In realtà, però, sarebbe una spiegazione riduttiva. Non ci troviamo di fronte a un normale ciclo elettorale-economico. La crisi sta sconvolgendo la natura stessa dell’Unione europea e, soprattutto, del contratto sociale che ha governato il continente dalla fine della Seconda guerra mondiale. Lo stesso Draghi lo ha ribadito a più riprese, sostenendo che il modello sociale europeo era ormai obsoleto[i].
Quel modello però era ed è la base del capitalismo democratico nato dalle ceneri del fascismo e della grande crisi del ’29. Un compromesso tra capitale e lavoro sviluppatosi a seguito di precise dinamiche sociali ed eventi storici che Draghi sembra ignorare. Tra le due grandi guerre del XX secolo, l’instabilità del capitalismo e le politiche liberali contribuirono fortemente alla destabilizzazione delle società occidentali, una situazione ben compresa sia da Roosevelt sia da Keynes quando ri-organizzarono il capitalismo americano e poi quello europeo sulla base di un nuovo patto politico, economico e sociale. L’entrata prepotente delle masse popolari nella storia, a partire soprattutto dalla Rivoluzione d’Ottobre, aveva reso chiaro che non era più possibile continuare a privilegiare a qualunque costo gli interessi economici del capitale.
Il Gold Standard, il sistema monetario internazionale che aveva caratterizzato il boom economico tra Ottocento e Novecento, non solo non era compatibile con l’esistenza degli stati nazionali democratici, ma metteva a rischio la sopravvivenza stessa del capitalismo. Fino a quel momento, la recessione portava a disoccupazione di massa e tensioni sociali, gli squilibri erano aggiustati diminuendo il livello dei salari e le condizioni di vita dei lavoratori. Ma con la rivoluzione alle porte e la reazione che portò alle guerre, i diritti di proprietà dei capitalisti venivano messi a rischio mentre la pauperizzazione dei lavoratori portava a quelle crisi di sovrapproduzione che già Marx aveva ben anticipato. E dunque ecco il compromesso alla base del modello sociale europeo che coniugava capitalismo e democrazia: proprietà privata protetta ma politica economica che puntava alla piena occupazione e comunque con un occhio di riguardo per le dinamiche economiche e sociali interne.
Come ben sappiamo questo modello è andato erodendosi nel corso degli ultimi trent’anni. Passo a passo ha lasciato spazio a una nuova ortodossia, quella del Washington Consensus, basata sui programmi di aggiustamento strutturali del Fondo monetario internazionale, in cui nuovamente la politica interna veniva sospesa per favorire gli interessi del mercato. Era però una realtà lontana da noi, che ci toccava solo dal punto di vista morale e che non capivamo finché non l’abbiamo toccata con mano.
L’avvento dell’Euro, infatti, ha svuotato gli Stati democratici di moltissimi dei loro poteri, dal battere moneta alla gestione indipendente della politica fiscale. Negli anni (relativamente) grassi, questo non è stato un problema, ma lo è diventato ovviamente ora, sulla spinta della crisi finanziaria. Che però, appunto, è diventata crisi di sistema. L’austerity prevede che i cittadini ed i lavoratori non siano più protetti dai loro governi che si devono invece concentrare solo sui conti pubblici – la stessa dinamica che caratterizzò la prima parte del XX secolo.
Le conseguenze politiche, elettorali e sociali di quel periodo sono state variamente studiate nel passato ma stanno ritornando prepotentemente al centro del dibattito accademico. Come noto, la Grande Depressione ebbe tra i suoi effetti più devastanti la crescita esponenziale di movimenti fascisti in quasi tutta Europa, una relazione causale ultimamente provata da Eichengreen e Bromhead[ii]. Studiando i risultati presentati dai due economisti si può sostenere che, nonostante le crisi non portino necessariamente al sovvertimento dei regimi democratici, influiscono però in maniera decisiva nella crescita di movimenti politici anti-sistemici, soprattutto se di estrema destra.
Ma le crisi economiche non sono la sola causa dei problemi della democrazia. Ponticelli e Voth[iii] hanno recentemente studiato la relazione tra austerity e rivolte sociali e scoperto che manifestazioni, scioperi ma anche assassinii politici e tentativi rivoluzionari aumentano esponenzialmente quando i governi tagliano le spese. In breve, la coesione sociale è funzione inversa del livello di spesa pubblica, soprattutto nei periodi di crisi.
Quel che più preoccupa è che, con tutti i distinguo del caso, l’Europa attuale non sembra aver fatto tesoro degli errori del passato[iv]. E le conseguenze, non a caso, ricordano, in sedicesimo per ora, quelle già viste in precedenza. Il dato che più salta all’occhio è la crescente sfiducia nelle istituzioni pubbliche e nei meccanismi di rappresentanza.
Se guardiamo i risultati elettorali dell’ultimo mese, appare chiaro che in quasi tutto il Vecchio Continente gli elettori hanno disertato le urne convinti che il loro voto sia ormai inutile e che le democrazie abbiano poco potere nei confronti del mercato. Tra chi invece si è preso la briga di andare a votare, i risultati migliori li hanno presi partiti dichiaratamente ostili al modello di Europa organizzato da Draghi e Merkel. I partiti tradizionali e in particolare quelli pro-austerity sono usciti dalla tornata elettorale semi-distrutti. Il caso eclatante, ovviamente, è quello greco, dove Pasok e Nuova Democrazia raccolgono a stento un terzo dell’elettorato. Ma anche in Italia, il Pdl è sparito ed il Pd vince elettoralmente, ma diminuendo il numero assoluto di voti e politicamente è messo all’angolo in tutti i comuni principali. E pure Sarkozy, Merkel e Cameron sono battuti su tutta la linea.
I vincitori chiaramente cambiano da paese a paese, in linea pure con le diverse situazioni economiche e con i diversi sistemi politici. In Germania e Francia, i paesi tuttora più benestanti, la spuntano partiti socialisti e socialdemocratici molto critici della politica economica europea. Ma i veri trionfatori sono Le Pen da una parte e i Pirati dall’altra. Fenomeni che non possono essere confusi ma che in comune hanno un rigetto profondo della politica “del Palazzo” e una critica radicale del sistema, su basi reazionarie o semi-anarcoidi.
Mentre in Italia la vittoria è chiaramente del Movimento 5 Stelle che basa la sua campagna sul rifiuto totale del sistema dei partiti e su una critica spietata dell’Unione europea e dell’euro, di cui ci si augura addirittura la scomparsa. E intanto nel nostro paese cresce la tensione sociale con attacchi sempre più numerosi ad Equitalia, eretta a simbolo e capro espiatorio di uno Stato non solo assente ma pure opprimente. Movimenti tra loro diversissimi, dunque, ma che attirano la simpatia ed il voto di chi ha perso ormai totalmente fiducia nel sistema istituzionale che così male sta governando l’Europa.
Il caso greco è, ovviamente, un poco diverso. In quel paese l’austerity ha colpito assai più duramente che altrove ed ecco allora che le risposte si fanno più aggressive. L’affermazione di Syriza è la vittoria di un partito di sinistra radicale che non rifiuta l’euro ma non è disposto a sacrificare la Grecia e la sua economia sull’altare della moneta unica. Nel frattempo però si fanno largo pure movimenti neo-nazisti che acquistano forza tra le fasce più disperate ed all’interno di polizia e forze armate.
In generale si può dunque concludere che l’assurda gestione della crisi economica sta portando a un’altra crisi, forse ancora più grave, una crisi di legittimità sia delle istituzioni nazionali, viste come inette ed incapaci, sia di quelle europee, viste come oppressive quando non colonizzanti. La risposta politica data dagli Stati europei al collasso finanziario è stata di sapore autoritario e comunque poco democratico: governi tecnici, memorandum e lettere più o meno segrete. Stati che non sanno più parlare ai propri cittadini, che si preoccupano solo dello spread e delle banche. Ma uno Stato che non si occupa o che non sa occuparsi, poco cambia, dei bisogni dei suoi abitanti è l’anti-tesi della democrazia. E rischia dunque una deriva che potrebbe, molto in fretta divenire poco controllabile.

[i] Non a caso Draghi ha attaccato frontalmente il modello occupazionale europeo in una intervista al Wall Street Journal: http://www.ecb.int/press/key/date/2012/html/sp120224.en.html
[ii] de Bromhead A., E. Eichengreen (2012), Right Wing Political Extremism in the Great Depression, University of Oxford, Discussion Paper in Economic and Social History, 95 (February)
[iii] Ponticelli, J., Voth, H.J., (2011), Austerity and Anarchy: Budget Cuts and Social Unrest in Europe, 1919-2009, CEPR, Discussion Paper Series, 8513.
[iv] Apparentemente le lezioni del passato sono usate solo strumentalmente per fini politici, come la psicosi da iper-inflazione tedesca. Se è vero che l’impennata dei prezzi contribuì alla delegittimazione della Repubblica di Weimar è anche vero che fu la recessione post-29 a portare al potere i nazisti. Ed al momento il rischio in Europa è sicuramente la disoccupazione e non l’inflazione.

Il sito originale dell'articolo, "Sbilanciamoci"

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