martedì 17 aprile 2012

NO ALL'IMBROGLIO SULL'ARTICOLO 18! (parte II)
Modifiche alla cosiddetta flessibilità in uscita
Di Bruno Pezzarossi

Dopo la pubblicazione dell'appello di ieri, continuiamo a smascherare le insidie che si annidano nella riforma del lavoro e lo smantellamento occulto dell'articolo 18, che ci vengono presentati da CGIL e PD come grandi vittorie sulle proposte del Governo. Non può essere considerata vittoria accollare al lavoratore licenziato anche il paradosso di dover dimostrare, senza disporre di nessun strumento per farlo, per quale motivo viene licenziato. 

Per aderire all'appello di ieri:

Agli articoli 13 e 14 il disegno di legge che cambia il mercato del lavoro modifica la legge n.604 del 1966 e
l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
All'articolo 15 viene modificata alla disciplina del licenziamento collettivo per riduzione di personale disciplinato
dalla legge 223/91.

I Modifiche alla l. 15.7.1966, n. 604

Articolo 13: modifiche alla legge 604/66.
Viene modificato innanzitutto l'art. 2, quello che disciplina la comunicazione dei motivi del licenziamento.
In precedenza era stabilito il solo obbligo di comunicare per iscritto il licenziamento: quanto ai motivi, se non
erano indicati nella lettera di licenziamento, potevano essere chiesti dal lavoratore entro 15 giorni, e il datore di lavoro era obbligato a comunicarli nei sette giorni dalla richiesta.

La sanzione, identica per l'ipotesi che il licenziamento fosse dato in forma verbale, o non fossero dati i motivi
nonostante la richiesta del lavoratore, era l'inefficacia del licenziamento, e cioè l'inidoneità dello stesso a produrre, quale suo proprio effetto, la risoluzione del rapporto di lavoro. Il datore di lavoro era perciò tenuto a corrispondere al lavoratore la retribuzione e versare i contributi, fermo l'obbligo di restituire funzionalità al rapporto di lavoro.
Cosa cambia?

La modifica è ben più significativa di quanto appaia una volta che la si legga in combinazione con
quanto disposto al comma sesto dell'articolo 14: la mancata comunicazione dei motivi del licenziamento,
ora dovuti anche a prescindere dalla eventuale successiva richiesta del lavoratore licenziato, non comporta
più la prosecuzione del rapporto ma, almeno nelle imprese con oltre 15 dipendenti, importa risoluzione del
rapporto "con l'attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formando procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”.

Si tratta di una novità insidiosa, che premia l’uso disinvolto della norma da parte di imprenditori di pochi scupoli:
consentire che il licenziamento senza motivazione sia sanzionato a regime con la sola indennità risarcitoria
minima induce certamente prassi di mala fede che premiano il licenziamento arbitrario.
Il rimedio che il legislatore fa le mostre di approntare per evitare l'abuso del licenziamento immotivato appare
paradossale prima ancora che impraticabile.
Nel nuovo sistema il lavoratore verrebbe infatti gravato dell'onere, impugnando il licenziamento, di
dimostrare che fu licenziato o per un motivo discriminatorio, o per un motivo disciplinare, o per un giustificato motivo oggettivo. Dimostrazione per nulla semplice se mancano manifestazioni di volontà in tal senso riconducibili al datore di lavoro (come è facile supporre che sarà, a meno di non ipotizzare un datore di lavoro autolesionista).Grottesco appare poi indurre il lavoratore licenziato a offrire da sé, in giudizio, la prova dell'esistenza di quei fatti che potrebbero indurre il giudice a ritenere dissimulata una motivazione disciplinare, o oggettiva: dovrebbe cioè dimostrare la sua propria violazione disciplinare, ma anche che essa non fu tale da legittimare un licenziamento ai sensi del quarto comma dell'articolo 14 (perché altrimenti il licenziamento non sarebbe affetto da difetto di giustificazione), oppure dimostrare che il licenziamento fu determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (è questa la definizione del giustificato motivo oggettivo di cui all'articolo tre della legge 604/66), ma anche che tale determinazione fu erroneamente ritenuta dal datore di lavoro (perché diversamente il datore di lavoro avrebbe licenziato giustificatamente).

Questo spostamento dell'onere della prova in capo al lavoratore, coniugato assieme con i ridotti termini per
proporre il giudizio (ora non più 270 giorni, ma 180), e con le severissime decadenze connesse al rito del
lavoro condurrà inevitabilmente a questo risultato: che il datore di lavoro che intenda licenziare tanto per ragioni soggettive che per ragioni oggettive, quando anche le ritenesse sicure e facili da provare, facilmente licenzierà senza comunicare i motivi. In tal modo si assicurerà un vantaggio non indifferente, perché rimetterà al lavoratore di dare la prova della sussistenza dei motivi del licenziamento -per qualificarlo come disciplinare o oggettivo-, senza perdere la possibilità di dimostrare la gravità dell'inadempimento disciplinare del lavoratore, o la effettività e inerenza causale con il licenziamento del giustificato motivo oggettivo. Avrà anzi la possibilità di giocare di rimessa, a fronte di un ricorso del lavoratore che dovrà attivarsi "alla cieca" e dar corpo a ipotesi o supposizioni.

Deve essere ripristinata la sanzione di inefficacia del licenziamento non motivato, nei termini attuali.
Viene in secondo luogo modificato il secondo comma dell'articolo 6 della 604: il termine per il deposito
in cancelleria del ricorso, termine stabilito pena di inefficacia del impugnativa del licenziamento, è ridotto, per i licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore della legge, da 270 a 180 giorni.
Sono gli avvocati giuslavoristi che operano per le organizzazioni sindacali dei lavoratori, e i loro assistiti, che
vengono pesantemente penalizzati dalla riduzione del già ristretto termine per il deposito del ricorso davanti al giudice. È certamente vero che anche dalla durata di questo termine dipendono, e giustificatamente, le critiche alla pesantezza delle conseguenze risarcitorie che corrono in capo al datore di lavoro quando il licenziamento viene giudicato illegittimo.

Deve però osservarsi che assieme con la riduzione del termine ben più corretta sarebbe stata una modifica
del regime delle decadenze istruttorie stabilite dal codice di rito: sei mesi possono sembrare molti, ma solo
per chi non si trova a dover affrontare la gran quantità di licenziamenti di questo periodo, e per chi non ha la
preoccupazione di trascurare irrimediabilmente aspetti del licenziamento non indifferenti rispetto all'esito del
giudizio, aspetti che il più delle volte dal lavoratore non sono conosciuti, o della prova dei quali il lavoratore non ha immediata disponibilità.
Non solo: dal momento che con la riforma la misura del risarcimento del danno che decorre dal licenziamento alla reintegrazione può superare 12 mensilità solo per le ipotesi di licenziamento discriminatorio, di licenziamento per causa di matrimonio, di licenziamento della lavoratrice madre o di licenziamento determinato da causa illecita (difficilissime da dimostrarsi, e decisamente infrequenti, la prima e l'ultima, richiedenti approfondimento giudiziale modesto la seconda e la terza) la riduzione del termine prende significato meramente punitivo per il lavoratore e il suo difensore, rendendo più difficile l' impugnativa del licenziamento,senza arrecare alcun vantaggio economico al datore di lavoro (il vantaggio è nella maliziosa aspettativa di un ricorso introduttivo meno accurato).
Viene in terzo luogo introdotto, per il solo licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per le
imprese con più di 15 dipendenti, un tentativo obbligatorio di conciliazione introdotto da una comunicazione alla d.p.l. del datore di lavoro con la quale viene dichiarata l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo, sono indicati i motivi del licenziamento stesso e le eventuali misure di assistenza la ricollocazione del lavoratore interessato. È previsto che il lavoratore possa farsi assistere o dall'organizzazione sindacale, o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Le parti possono esaminare anche soluzioni alternative al recesso.
Decorsi 20 giorni dalla convocazione dell'incontro, se non è raggiunto l'accordo, il datore di lavoro può
comunicare il licenziamento al lavoratore. Il comportamento delle parti, desumibile dal verbale redatto in sede di commissione di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla commissione è valutato del giudice per determinare l'indennità risarcitoria dell'articolo 18 (qui il testo del ddl fa riferimento ad un comma ottavo probabilmente soppresso nella versione definitiva), e per il regime delle spese di causa.
L’eventuale monetizzazione del licenziamento non pregiudica il diritto all’Aspi.

La norma là dove prevede un tentativo di conciliazione che precede la comunicazione del licenziamento,
riecheggia il sistema tedesco, ma solo apparentemente: in quel sistema il licenziamento non prende efficacia
fino alla decisione del giudice. Nella riforma proposta dal ddl il datore di lavoro può invece procedere al
licenziamento ben prima, appena sia infruttuosamente esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione o siano decorsi venti giorni dalla convocazione avanti la Commissione di conciliazione.
Appare onestamente difficile credere che questo tentativo di conciliazione possa risolversi con un accordo
che preveda una soluzione alternativa al licenziamento (e cioè con una rinuncia al licenziamento stesso da
parte del datore di lavoro). E ben più probabile che diventi null’altro che la sede ove si stabilirà il quanto della monetizzazione.
Sempre che datore di lavoro non preferisca, come riferito a proposito del primo punto di questa breve nota,
licenziare senza comunicare il motivo.

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Gli aggiornamenti sulle rubriche di "Resistenza Internazionale", 17 aprile 2012

The City of London:
"La Spagna nell'occhio del ciclone"

Per 4 mesi ci siamo sentiti dire che i cambi di governo in Italia e Spagna e l'arrivo di Draghi alla BCE avevano rassicurato i mercati e che si erano messi in sicurezza i conti dei paesi più a rischio. Anzi, Monti ci aveva pure detto che il peggio era passato. Ma non lo era, e mentre le sue responsabilità sono importanti, non sono certo le uniche.
La crisi è di sistema anche se ci siamo ostinati a descriverla come il risultato dei conti truccati ad Atene e della pigrizia dei greci. In effetti in Grecia ne avevano combinate di tutti i colori - con qualche aiuto decisivo delle grandi banche internazionali - ma come spieghiamo la situazione della Spagna attuale?
Guardiamo due dati dell'anno che precede la crisi...leggi tutto l'articolo