domenica 22 gennaio 2012

Lettura domenicale:
Giacomo: il bambino che sognava la tuta blu

Da "La Stampa" 22 gennaio 2012

L'attore tra i ricordi del lavoro in fabbrica e i timori per gli eccessi di finanza e consumi

GIACOMO PORETTI

Sono nato nello stesso paese, Villa Cortese, dove è nato un certo Franco Tosi. Lui è venuto al mondo nel 1850, io un secolo dopo. Lui ha fondato un’azienda pionieristica che negli Anni 70 impiegava 6000 lavoratori. Mio nonno, mio papà, il fratello di mio papà ed io, abbiamo tanto desiderato di essere assunti alla Franco Tosi negli stabilimenti di Legnano, a 15 minuti di bicicletta dal nostro cortile. Perché se venivi assunto alla Tosi la tua vita prendeva la strada della sicurezza: 13 mensilità assicurate, due tute blu all’anno e la colonia marina sull’Adriatico per i figli. A Legnano c’è stato un periodo che il Curato fungeva da ufficio di collocamento, e se proprio non gli eri antipatico, al Curato, un posto alla Tosi saltava fuori. Benché mio padre cantasse nel coro della parrocchia, lo zio pure e il nonno non avesse mai mancato una messa domenicale delle 11, nessuno della mia famiglia è mai stato assunto alla Franco Tosi.

Niente di personale, pura casualità; mio nonno ha poi fatto lo stradino, teneva pulite le strade e le aiuole del paese, mio papà e mio zio sono stati assunti in un’altra fabbrica che faceva macchine da cucire per l’industria: la Rimoldi, poi Rockwell, 1100 dipendenti a 18 minuti di bicicletta, 13 mensilità, due tute blu all’anno e colonia marina in Liguria e in Valle Imagna. Ho odiato entrambi i posti, le colonie intendo, in particolare quella di Pietra Ligure. Ma se non era per gente come i Tosi e i Rimoldi, milioni di bambini in quegli anni non avrebbero mai visto il mare. C’è stato un periodo che Legnano era solo un’enorme estensione di fabbriche. Tu nascevi e quando ti battezzavano il prete era in grado di indicarti il tuo destino: Cotonificio Cantoni, officine Pensotti, De Angeli Frua. Il prete mi guardò, poi guardò mia madre e disse: suo figlio ha la faccia da terziario, mi piace poco...

La prima volta che ho conosciuto la fabbrica è stato intorno ai quattro anni. Mamma e papà erano operai. La mamma lavorava alla Giulini & Ratti, tra i telai: gliene avevano affidati 25, tra il primo e il venticinquesimo c’erano 60 metri di distanza e per poterli governare le avevano dato una bicicletta. La mamma mi diceva che la cosa brutta della tessitura non era la fatica, ma il rumore assordante. La mamma dopo quasi 30 anni di rumore non ci sentiva tanto bene, è andata da diversi dottori e adesso ogni due mesi riceve 280 euro, si chiama pensione parziale di invalidità. Il papà invece faceva l’operaio metalmeccanico. Era un fresatore e per otto ore al giorno dava forma ad un pezzetto di ferro, lo ha fatto per 35 anni, sempre la stessa forma. Lui diceva che in quella fabbrica si stava bene, non c’era rumore ma in compenso in mensa si mangiava male.

Quando mamma e papà dovevano fare il turno dalle 6 fino alle 14, allora ci svegliavano a me e a mia sorella, ci vestivano, e poi mia sorella veniva sistemata nel seggiolino ancorato al manubrio della bicicletta della mamma, io invece mi sedevo su quello sistemato sopra la ruota posteriore: abbracciavo i fianchi della mamma e appoggiavo la guancia sulla sua schiena e così riuscivo a dormire ancora un pochino mentre la mamma pedalava fino alla casa di una delle nonne e lì stavamo fino a che non veniva a prenderci il papà a fine turno.

Quando io e mia sorella eravamo piccoli non c’erano le tate e le badanti, quindi i bambini quando i genitori andavano in fabbrica stavano con i nonni. Per cinque giorni della settimana io chiedevo sempre alla mamma perché ci si svegliava così presto, lei diceva «perché dobbiamo andare in fabbrica», «anch’io mamma ci devo andare?», «no, tu non andrai mai in fabbrica, tu devi andare in banca!», «adesso mamma ci devo andare in banca? Ma io ho sonno», «non adesso, andrai in banca quando sarai cresciuto!». Mi sono sempre chiesto se non sono cresciuto per paura di finire in banca, o perché mi svegliavo troppo presto al mattino.

La seconda volta che ho conosciuto la fabbrica avevo finito da poco terza media e sono andato a lavorare in un capannone dove facevano delle pesantissime cancellate in ferro. I miei genitori per un mese non mi hanno rivolto parola: il preside aveva detto che ero un allievo dotato e che sarei stato un bravo avvocato. Io semplicemente mi vergognavo: nessuno nella mia famiglia era andato oltre la quinta elementare, qualcuno ci era arrivato con fatica, qualcun altro si era fermato in terza, ed io che dovevo fare? Istituto per geometri o ragionieri? Siii, imploravano gli occhi della mamma, neanche per sogno dissi io, fabbrica e al massimo scuole serali! C’è stato un periodo in cui indossare quella tuta blu sporca di olio e di grasso, tornarsene a casa alla sera esausto e cercare di lavarsi le mani che non venivano mai pulite per davvero, avere quelle mani ancora sporche di nero anche il sabato e la domenica, era un segno di orgoglio, un orgoglio che nasceva dalla povertà e che chiedeva dignità e risarcimento. Quell’orgoglio di indossare la tuta blu chiedeva alla vita di essere risarciti per averci fatti partire un quarto d’ora dopo il via. Dopo due settimane che lavoravo in quella fabbrichetta (tre padroni e quattro operai di cui due apprendisti), mi ero già pentito: non si poteva parlare, se smettevo di battere il martello sulla lamiera il principale mi chiedeva se ero stato colto da una paralisi, io in silenzio lo mandavo a quel paese e mi dicevo che prima o poi sarei andato a lavorare in una fabbrica seria.

A volte la vita in fabbrica era dura, tornavo a casa alla sera e mi dicevo che dovevo inventarmi qualche cosa per rendermi autonomo, avere un’idea. Una volta ho pensato di fare il calzolaio: avrei risuolato le scarpe al vicino, in cambio della riparazione del carburatore del motorino, visto che lui faceva il meccanico. Poi sarei andato a scambiare una cotoletta dal macellaio in cambio della sostituzione dei tacchi delle scarpe della moglie. Ma poi iniziavano i problemi: se mi viene voglia di mangiare un gelato al pistacchio e il gelataio non ha scarpe da risuolare? Quanti tacchi devo cambiare per avere in cambio un televisore Lcd da 42 pollici? Per almeno due-tre anni ho aspettato che arrivasse una lettera dalla Tosi, ma niente, anzi cominciavano a non assumere più nessuno e a proporre i prepensionamenti, non solo alla Tosi ma in tutte le fabbriche del Legnanese.

E in quel momento è come se fosse iniziata una nuova fase in cui il lavoro manuale dava fastidio, era meglio farlo fare all’estero, in quei Paesi dove costava tutto meno, noi eravamo stanchi di fare i soliti lavori e finalmente, liberandoci della fatica della fabbrica, avremmo vissuto di alto valore aggiunto nei servizi, avremmo tutti fatto dei lavori fighissimi: dall’account, al chief manager, all’executive assistant to president, fino all’executive assistant to drink to president, passando dal make up artist to wife of president, al vice boy lift to president, all’assistant buyer e tra un happy hour, un lunch, un brunch e un punch qualcuno sarebbe diventato un Supreme Superior Super President.

Non ci sono più le fabbriche di una volta, così come non ci sono più i comandanti di navi di una volta; una volta c’erano le fabbriche che facevano gli oggetti, ora ci sono quelle che fanno la finanza; una volta prendevi una nave per andare in America, adesso prenoti una nave lunga 200 metri e ti portano a vedere la luna sugli scogli.

Una volta la classe operaia pensava al suo orgoglio e a come riscattarsi e gli imprenditori con i loro capitali e la loro creatività avevano come compito quello di dare ad ogni famiglia il frigorifero, la tivù, la lavatrice e il benessere. Ora che l’operaio ha gli stessi iPhone del suo datore di lavoro, come la mettiamo? Adesso abbiamo l’ossessione del Pil, dei consumi che non possono diminuire altrimenti il Paese va a rotoli. Nel 2002 siamo andati a N.Y. per girare un film e sui taxi a Manhattan Bloomberg aveva fatto affiggere una targhetta che diceva: spendete i vostri soldi, il Paese è in recessione. Mio padre avrebbe detto: risparmia i tuoi soldi, domani potresti averne bisogno. Chi ha ragione, il sindaco di N.Y. o mio padre?

Mi spiego: per liberismo, secondo me che non ho fatto studi in economia e potrei sbagliarmi, è da intendersi quella visione del mondo per cui il Mercato deve essere libero di agire, non deve avere eccessivi vincoli, anzi nessun vincolo. La Libertà d’impresa deve essere appunto libera di creare. Anche se, per caso, le venisse voglia di elargire dei mutui a centinaia di migliaia di persone, che hanno scarsissime probabilità di rimborsare il debito, anzi nessuna possibilità di rimborsare il debito, in molti casi uguale al 102% del valore della loro casa.

Sì, perché le banche del Liberismo sono generose e, oltre alla casa, sanno che avrai bisogno delle tende a pacchetto e del parquet in rovere naturale e loro, le banche generose, ti finanziano anche quello perché ti vogliono felice nella casa che hai appena comperato. Se alle banche viene voglia di dare una bella casa a tutti gli americani, anzi ad alcuni una bellissima casa con piscina e alla maggior parte una casa con l’ipoteca, ecco, le banche devono poterlo fare. Se poi a quelle banche venisse voglia di girare ad altre banche quei mutui sotto forma di obbligazioni e di venderle ai clienti garantendo che sono investimenti redditizi e sicuri, se questo è il desiderio delle banche devono poterlo fare. Perché al Liberismo sta a cuore, come dice la parola stessa, la Libertà.

Se poi, per ragioni oscure, ai guru di Wall Street, i proprietari delle case nel Missouri o del Tennessee, i famosi intestatari dei mutui al 102%, scoprono non solo di non possedere denaro sufficiente per pagare la tinteggiatura, ma nemmeno la metà del necessario per coprire la prima rata di interessi, alcuni proprietari di mutui, anzi tutti i proprietari di mutui, vanno in banca e dicono di non poter pagare, che succede? Don’t worry, be happy: l’impiegato di banca ritira il mutuo e consegna all’insolvente un kit di sopravvivenza composto da tenda ad igloo color verde speranza e un sandwich vegetariano, perché le banche si preoccupano della salute dei propri clienti. Poi l’impiegato, dopo essersi licenziato da solo, telefona al Direttore, ma trovando la segreteria telefonica lascia questo messaggio: «Ve lo avevo detto che questi mutui erano una pirlata...».

Ora che un sacco di persone vivono in tende color verde speranza, che molti impiegati di banca si sono licenziati e che molti Direttori, anzi quasi nessuno, ha perso il posto, possiamo tirare la morale: il Mercato deve essere libero, anche di sbagliare. E quand’anche sbagliasse e molte banche in giro per il mondo (sì, perché i mutui del Tennessee e del Kansas sono finiti in tutto il pianeta) fallissero in ragione della libertà e della creatività d’impresa, le banche fallite dovrebbero avere la Libertà di chiedere allo Stato di rifinanziare il disastro. E lo Stato non può rifiutarsi perché la prerogativa dello Stato non è la Libertà ma il servizio e il soccorso dei cittadini, anzi di alcuni cittadini.

L’unione commercianti di Milano ha fatto proprio uno degli ultimi studi sulla psicologia del compratore: i negozi dovranno avere sempre la porta aperta, anche in inverno, altrimenti la porta chiusa verrebbe vissuta come un ostacolo al desiderio dell’acquisto. Di questo passo l’Associazione dentisti farà promulgare una legge che consentirà al dentista di poter passare una volta ogni sei mesi a casa per casa per effettuare la pulizia dentale; e al tappezziere di rinnovarti la carta da parati di sua iniziativa una volta all’anno perché se dipendesse dal proprietario di casa il Paese piomberebbe in recessione.

Mi vengono in mente le parole di Robert Kennedy, non proprio un nemico del mercato, nel famoso discorso sul Pil, 1968: «Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Finisco con l’ultima banalità: che nostalgia la Franco Tosi che costruiva le case, le scuole e gli asili per le famiglie degli operai. Certo non tutta, ma quella classe imprenditoriale sentiva dentro sensibilità particolari, la finalità della sua avventura imprenditoriale non si esauriva nel profitto personale ma si estendeva sino ad assumersi responsabilità sociali.
Dal monologo di ieri dell’attore al convegno della Fondazione Italcementi Carlo Pesenti




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