lunedì 31 ottobre 2011

L'insostenibile leggerezza della libertà
Di Monica Bedana


Sono giorni che ho negli occhi questa foto. 
Lui è Antonio Basagoiti, 42 anni, il leader del Partito Popolare in Euskadi, nei Paesi Baschi. E' la prima volta in 14 anni anni che esce per strada solo, senza scorta; si siede sulla porta dell' ufficio e si accende un sigaro. Cosí è cambiato il suo mondo da quando l'ETA ha rinunciato alla lotta armata; nella boccata di fumo di quel sigaro acceso si materializza la sua libertà. 
E' la stessa libertà che invece si evapora per i quasi cinque milioni di disoccupati di nuovo sfiorati in questi giorni in Spagna, ed è esattemente la stessa che si  flessibilizza in Italia col nuovo decreto sviluppo, che vede nel lavoro soltanto un costo da abbattere mediante depennamento dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori.

Corrisponde ai poteri pubblici promuovere le condizioni affinché libertà e uguaglianza siano reali ed effettive; è l'articolo 9 della Costituzione spagnola, potrebbe essere il 3 di quella italiana. E' il fondamento di quello stato sociale che è sempre meno un diritto e sempre più una saltuaria concessione che dipende via via dalla fluttuazione dei mercati, dalle priorità dello spread, dalle inutili e continue ricapitalizzazioni delle banche. E se nella Grecia dimenticada dagli dei e dal FMI già scarseggiano da tempo le medicine, nella teoricamente florida e nobile Catalogna il consigliere alla sanità dichiara che “la salute è un bene privato, che dipende dal singolo cittadino e non dallo Stato”, giustificando cosí i sanguinosi tagli agli ospedali pubblici.

A che libertà possiamo aspirare, imbustati come siamo -Spagna, Italia ed il continente intero- dentro un sistema monetario talmente rigido da essere diventato una trappola mortale, senza lo spiraglio di un solo fattore chiaro che spinga a favore di una riattivazione dell'economia.
Alla nostra precaria libertà di cittadini il Sistema chiede, per nutrirsi, continui sacrifici; ed ecco che si snatura la Costituzione imponendole un tetto di spesa, che si convocano elezioni anticipate per calmare i mercati e che si fa affidamento allo “spirito di collaborazione” , nell'applicazione delle misure di austerità,  di coloro che ancora non sono stati eletti (e che hanno già dato, tutti, a priori, garanzie di totale disponibilità).
La nostra è, in realtà, una libertà pesantemente vigilata dalla scorta della troika. Siamo come Basagoiti prima di quel sigaro.

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Come non risanare l'Italia
di Nicola Melloni

su "Liberazione" del 28/10/2011

Di fronte alle inusitate ed inaccettabili pressioni europee, il governo italiano ha risposto con una lettera d'intenti che presenta un manifesto politico ed ideologico neoliberale ed un programma economico inutile e dannoso.
I cardini di questa svolta conservatrice sono la riforma previdenziale e quella del mercato del lavoro. Iniziamo dal primo intervento, l'aumento dell'età pensionabile a 67 anni e 7 mesi a partire dal 2027. I risparmi programmati con tale riforma sono assai pochi e comunque dilazionati nel tempo. Quindi, se l'obiettivo era trovare risorse per mettere in sicurezza i conti, si tratta di una riforma inutile. Pur tralasciando che il regime pensionistico italiano non è certo il più "lassista" d'Europa, i problemi dell'Inps non si risolvono con l'innalzamento dell'età pensionabile, dato che il sistema previdenziale ha i conti sostanzialmente in ordine, mentre è quello assistenziale a creare problemi di sostenibilità. In generale, il problema dell'invecchiamento della popolazione, che pure esiste, non si risolve certo innalzando l'età pensionabile. Il paese invecchia perchè, rubando il futuro ai giovani, disincentiva la natalità e dunque la potenziale espansione del mercato del lavoro. Inoltre, con un mercato del lavoro asfittico, due anni di lavoro in più per i padri vogliono semplicemente dire due anni di lavoro in meno per i figli, che devono aspettare il ritiro della generazione precedente per trovare lavoro. Non solo. Un aumento dell'età pensionabile peggiorerà inevitabilmente la produttività del lavoro. I lavoratori giovani, per mille evidenti ragioni, sono in media assai più produttivi di quelli più anziani, ormai usurati da 30 anni e passa d'impiego.

Si potrebbe obbiettare che il governo ha pensato anche a questo, cercando di rendere più mobile il mercato del lavoro con il licenziamento facile. Un'assurdità. Il mercato del lavoro è già divenuto estremamente flessibile con la deregolamentazione degli ultimi anni. Ma questa flessibilità estrema è divenuta precarietà e mai opportunità. Con dei costi economici e sociali abnormali. Uno lo abbiamo già visto: bassa natalità, figlia del basso reddito. E a ruota, ovviamente, basso consumo. Ma la precarietà ha soprattutto risvolti economici estremamente negativi. Flessibilità e precarietà vogliono soprattutto dire basso livello d'investimento in capitale umano in quanto solo l'azienda che assume a tempo indeterminato un lavoratore ha l'interesse a farlo progredire professionalmente. In questi anni si è insistito molto sulla bassa produttività del lavoro italiano, ma il problema nasce proprio dal ridotto livello degli investimenti, in tecnologia ed in capitale umano, dell'industria italiana. Ora si fornisce un ulteriore disincentivo alle imprese. Con la flessibilità, sostanzialmente, si chiede all'industria italiana di competere sul prezzo e non sulla qualità del prodotto, che è uno dei motivi fondamentali della crisi del nostro paese che risale a ben prima di quella finanziaria. I fautori della riforma sostengono che libertà di licenziare in realtà significa incentivi per assumere (e dunque anche per investire in formazione), ma in questi anni la flessibilità in entrata (che è poi tale anche in uscita, attraverso i contratti precari) si è semplicemente risolta in supersfruttamento e mediocre produttività. Licenziamento per motivi economici, unito alla fine della contrattazione nazionale, vuol dunque sostanzialmente dire licenziamento dei lavoratori che costano troppo e loro sostituzione con quelli a buon mercato. Con il rischio, nemmeno tanto velato, che il problema generazionale venga risolto col licenziamento dei lavoratori più anziani che così non raggiungerebbero più l'età pensionabile inopinatamente innalzata.

Nè, soprattutto, la riforma del mercato del lavoro accenna ad una necessaria ridefinizione del welfare, che in Italia non esiste, a parte la cassa integrazione. Se anche si volesse discutere seriamente di flexsecurity, si dovrebbe necessariamente partire dal reddito fisso per i disoccupati e dall'investimento pubblico (in quel caso) in capitale umano, con lo Stato che dovrebbe garantire l'aggiornamento ed il rinserimento nel mercato del lavoro, a pari salario e mansioni, come avviene nel Nord Europa. Non solo per una ragione di giustizia sociale, ma per evitare il deperimento dello stesso capitale umano e la sfiducia che porterebbe all'uscita definitiva dal mercato del lavoro.


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L'insostenibile inaffidabilità dei mercati
di Nicola Melloni

su "Liberazione"del 30/10/2011

Da quando la crisi è iniziata ed è entrata nella sua fase più acuta, ogni giorno siamo in attesa delle notizie che vengono dai mercati di tutto il mondo. La mattina appena alzati ci sono già le notizie che vengono dall'Asia, alle 9 aspettiamo con trepidazione l'apertura di Milano, che seguirà inevitabilmente il trend asiatico, ma il momento cruciale sarà comunque nel primissimo pomeriggio, quando inizieranno le contrattazioni a Wall Street che determineranno le chiusure in rialzo o i tonfi di giornata delle borse europee. E via che si ricomincia il giorno dopo. Giornate di panico e perdite colossali vengono seguite da incredibili rialzi ed euforia ed uno si potrebbe domandare cosa sia cambiato nel corso di ventiquattr'ore per passare dalla paura all'entusiasmo. Nulla, in effetti.
Ogni giorno ci affidiamo alle notizie che vengono dai mercati finanziari come se fossero un oracolo, se non proprio il giudizio universale pronunciato dalla divinità di questi tempi, il mercato. Come tutte le divinità, naturalmente, gode del dogma dell'infallibilità. Se il mercato così ha deciso, ci sarà una ragione, perchè, ci dicono gli economisti neoliberali, gli investitori sono razionali.

Ovviamente, non è così. Anzi, è l'esatto contrario. Bisognerebbe rileggersi Keynes e ricordarsi degli animal spirits. Gli investitori sono così razionali che agiscono con la logica del branco, se uno compra tutti comprano, se uno vende tutti vendono. D'altronde la storia degli ultimi 20 anni è davanti agli occhi di tutti. Il miracolo delle dot.com a cavallo della fine del secolo scorso sembrava il dischiudersi di una nuova era di ricchezza e benessere. Invece era solo una bolla speculativa. Tutti compravano, anche se non sapevano cosa stavano comprando. E poi tutti a vendere quando la bolla è scoppiata. Ed oggi è la stessa cosa. In preda al panico della crisi si vende a manbassa, a prescindere dal titolo che si possiede, salvo poi ricomprarlo il giorno dopo, a prezzo più basso per fare guadagni in conto capitale. E' la speculazione.

Ed ogni volta che in Tv o sui giornali si parla di speculazione, c'è sempre qualche economista o qualche "esperto" che ci spiega che la speculazione non è nè buona nè cattiva: è semplicemente una forza del mercato con cui fare i conti. Ma non è così. La speculazione non è una forza neutra come non lo sarebbe uno stato che decidesse di chiudere di imperio un'azienda per ragioni politiche, un'eventualità che quegli stessi economisti ed "esperti" considererebbero uno scandalo inaudito. Le borse storicamente esistono per dare la possibilità alle aziende di raccogliere i capitali necessari per gli investimenti. Nelle piazze affari di tutto il mondo gli investimenti dovrebbero valutare le potenzialità delle aziende, i loro piani di investimento, ed accordare loro fiducia nel caso siano convinti dalle prospettive di crescita. La fluttuazione del prezzo dei titoli dovrebbe dipendere dalla capacità delle aziende di generare profitti, cioè di pagare dividendi agli azionisti. Più profitti si fanno, più alto è il prezzo dell'azione.

Ora, è evidente che se i mercati fossero razionali, le imprese migliori crescerebbero in capitalizzazione, mentre quelle peggiori vedrebbero il prezzo delle loro azioni crollare. Ma non è così, lo abbiamo visto con l'esempio delle dot.com, lo intuiamo tutti i giorni quando la crescita del mercato asiatico fa salire il prezzo delle azioni di aziende italiane e quando, cinque ore dopo, l'apertura in calo di Wall Street fa crollare la stessa azione. In sostanza, l'andamento delle borse è ormai largamente slegato da quello dell'economia reale.

Da agosto in avanti, poi, oltre a controllare l'indice delle borse, siamo in costante fibrillazione per i movimenti dello spread, cioè la differenza tra il tasso di interesse italiano e quello tedesco. In questo caso, il giudizio che il mercato dà riguarda con più precisione gli stati e le loro politiche economiche. Se gli investitori non si fidano delle promesse e delle politiche dei governi, li puniscono vendendo titoli di stato. Seppure il mercato dei titoli di stato sia più legato a fondamentali macroeconomici che agli umori degli investitori dall'altra parte dell'oceano, rimane pur tuttavia un arbitro men che affidabile. Non c'è nessuna garanzia che il giudizio dato dai mercati sia corretto, e gli attacchi speculativi contro gli stati sono spesso dominati dai soliti animal spirit e non da aspettative razionali. Il punto è che la speculazione finisce per avere (quasi) sempre ragione ex post, perchè i suoi attacchi determinano una situazione di crisi anche se non ve ne era motivo. Con costi esorbitanti e non necessari.

L'andamento dei mercati finanziari è dunque inaffidabile, ed è assurdo che si continui ad attribuire a questi mercati il potere di giudizio sulle economie (e le politiche) degli Stati. Più che preoccuparsi del giudizio di un arbitro folle, sarebbe forse il caso di preoccuparsi di come metterlo sotto controllo e di limitare i danni della speculazione.

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