martedì 13 settembre 2011

Un contratto sociale per gli indignados d’Europa



I problemi che l’Europa sta affrontando in questi mesi non sono casuali e sono stati spiegati molto bene nei numerosi interventi su sbilanciamoci.info e il manifesto. Da un lato ci sono dei problemi di struttura economica, legati all’impalcatura istituzionale monetarista e non democratica, dall’altro tensioni geopolitiche generate soprattutto dal ruolo della Germania. 

L’Europa moderna nasce negli anni '90, dopo la caduta del muro di Berlino che non solo sanciva la divisione del Continente in due ma rappresentava anche una minaccia non tanto militare quanto politica e sociale – seppur via via sempre più consunta e spuntata – al capitalismo occidentale. Questa minaccia aveva avuto come conseguenza, nel secondo dopoguerra, un compromesso capitale-lavoro molto avanzato e un welfare state inclusivo anche in quei paesi, come l’Italia, dove la sinistra non era mai stata al potere. La fine del socialismo reale portò un drastico cambiamento di paradigma e sotto le macerie del muro non rimasero tanto i comunisti, quanto piuttosto i socialdemocratici che presto rinunciarono a quelle politiche economiche e sociali che li avevano contraddistinti per tutto il XX secolo, per affidarsi ciecamente al mercato trionfante di stampo americano, il vero vincitore della guerra fredda. La potente spinta ideologica neo-liberista trovò campo aperto in Europa dove le istituzioni comunitarie erano ancora in fieri e dunque c’era terreno vergine da conquistare. I tipici esempi di questo institutional design furono il Patto di stabilità, l’euro e la Banca centrale. La costruzione dell’Europa partiva da una esigenza vera, la creazione di un nuovo soggetto geo-politico che avesse una propria voce autonoma nel post-'89 (motivazione ancora assai valida oggi, come ci ricorda Giuliano Amato), ma il suo concepimento fu il risultato di un processo elitario e a-democratico, in cui la parte del leone non la fecero i popoli ma i mercati. Le nazioni europee cedettero larghe fette di sovranità popolare, financo la politica monetaria, ad autorità amministrative non elette, quindi senza mandato popolare, quindi non controllabili in maniera democratica. Queste stesse autorità avevano nel proprio Dna l’imprinting neo-liberale, il monetarismo, certo ma soprattutto la public choice theory, con la sua diffidenza verso il ciclo elettorale e la sua determinazione – a volte giustificata, come nei casi italiano e greco – a sottrarre l’economia alla politica dei favori e delle prebende. Dunque, appunto, il patto di stabilità che toglieva le leve economiche ai governi nazionali, l’euro che garantiva la stabilità dei mercati e la sicurezza degli investimenti, la Bce responsabile solo per l’inflazione e non per l’occupazione, al contrario della Fed. Era il definitivo abbandono del modello Bretton Woods, del capitalismo temperato che dava maggior peso agli obiettivi di politica economica nazionale rispetto all’equilibrio economico internazionale, raggiungibile con continue svalutazioni (e conseguente inflazione) delle economie più deboli. Di conseguenza, di spazi per partiti e sindacati, istituzioni portanti del miracolo economico della seconda metà del '900, non vi era traccia. D’altronde, per i partiti si trattava di eutanasia, soprattutto grazie al suicidio socialdemocratico che rinunciava a un progetto diverso di società e, di conseguenza, a politiche economiche apprezzabilmente diverse da quelle di centro-destra, anch’esse ricondotte all’ordine dopo l’esperienza del cattolicesimo sociale. Si trattava di una vera e propria rivoluzione passiva che restaurava l’ordine capitalista pre-New Deal. E come in tutti i momenti di cambiamento, c’è che vince e c’è chi perde. 

La struttura istituzionale ed economica neo-liberale faceva chiaramente pendere la bilancia dalla parte del capitale contro il lavoro, come confermato dalla polarizzazione nella distribuzione del reddito che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni di crescita economica occidentale. In Italia, ad esempio, la quota dei salari sul reddito si è ridotta dal 60 al 50% tra gli anni 80 e Duemila, mentre l’indice Gini, il coefficiente di diseguaglianza, è cresciuto dallo 0,4 allo 0,5. Nel resto d’Europa e dell’Occidente la situazione non era tanto più rosea, con la solitaria eccezione della Francia. I cambiamenti di struttura economica avevano naturalmente un impatto anche all’interno del mondo capitalista con la finanza che, pian piano, marginalizzava l’industria, soprattutto grazie a un processo di crescita e concentrazione che portava alla creazione di colossi bancari too big to fail. La dispersione della proprietà nell’industria e l’emergere di un capitalismo sostanzialmente acefalo significava un'attenzione eccessiva per i ricavi di breve e brevissimo periodo, che solleticavano gli appetiti speculativi, in contrasto con le strategie di lungo periodo per la crescita e il rafforzamento delle aziende. E se questo mutamento della struttura economica si è sviluppato soprattutto a partire dal contesto anglosassone, anche economie più marcatamente industriali come la Germania e l’Italia stessa non sono state immuni da tale processo evolutivo. Tale cambiamento contribuiva ulteriormente a modificare il rapporto capitale-lavoro, con i mercati finanziari, apolidi per definizione, talmente forti da dettare leggi ai governi, europei e non. Dunque, tagli di bilancio, riduzione del welfare state, flessibilità (precarizzazione) del lavoro per soddisfare i bisogni di un capitale mobile come non mai, mentre il lavoro diventava costo e non investimento produttivo. Quello che nasceva sulle macerie dell’età d’oro del capitalismo era un nuovo contratto sociale, basato sì sulla democrazia, ma sulla democrazia del debito in cui il settore finanziario sostituiva lo stato come creatore di opportunità e dispensatore di servizi, e il cittadino si trasformava da lavoratore a consumatore e investitore. La natura stessa del capitalismo globalizzato aveva dei riflessi profondi sull’economia politica internazionale con Stati uniti, G7, Fmi e infine anche Eu attivamente impegnati nella trasformazione del capitalismo mondiale sul modello di quello americano.

Su questo scarto sistemico si innestava poi la dimensione geografica di un'Europa tutt’altro che omogenea economicamenteMario Pianta ha ben spiegato la divaricazione che si è venuta a creare tra un core – gli stati ricchi e nordici – e una periphery con strategie di sviluppo di varia matrice e di dubbia validità. I paesi periferici, abituati alle svalutazioni competitive e ora ancorati all’euro-deutsche mark si ritrovavano immediatamente a rischio competitività, bloccati dalla rigidità istituzionale europea. Si offriva però loro un sostanzioso conguaglio: l’accesso ai mercati finanziari internazionali a costi irrisori e un riparo sicuro dalle tempeste finanziarie che cominciavano a squassare l’economia internazionale. Si creava così un meccanismo che trasformava la ricchezza reale (quella prodotta da un paese, quella guadagnata col salario) in ricchezza fittizia (quella accessibile attraverso i prestiti sul mercato finanziario). La Germania, motore industriale dell’Unione, manteneva sostanzialmente inalterata la propria politica economica, con la Bce che sostituiva in tutto e per tutto la Bundesbank, garantendo la solidità dell’euro e la continuità della politica di rigore finanziario tedesco, assai precedente a quella dell’Euro-Tower. Forte di una struttura sociale solida e di istituzioni economiche inclusive – i sindacati nei consigli di amministrazione – Berlino non soffriva dell’impatto della moneta unica e rilanciava un ciclo produttivo piuttosto semplice ed efficace e che ricalca il modello circolare sino-americano. A fronte di una perdita di competitività dell’Europa meridionale, la Germania aumentava le esportazioni dentro la euro-zona (come giustamente spiegato nell’articolo di Bagnai) che venivano finanziate dall’esportazione di capitali tedeschi verso il Mediterraneo. Il tutto reso possibile dalla supposta solidità dell’euro – nessun rischio di default e di svalutazione all’orizzonte. 

Il problema dell'attuale congiuntura – nata, ricordiamolo fuori dall’area euro – è che spazza via i pilastri di questo sistema. Con la crisi dei debiti sovrani viene meno il meccanismo di protezione dei paesi deboli, lasciando però immutata la struttura istituzionale europea. Nel bel mezzo del panico finanziario la Bce si preoccupa di aumentare i tassi di interesse, spaventata da una inflazione sostanzialmente inesistente (compresa, nell’area euro tra il 2.5 e il 3%), mentre la disoccupazione raggiungeva in Spagna il 20% e l’Italia registrava il record europeo di disoccupazione giovanile (quasi il 30% dei minori di 24 anni è senza lavoro). Allo stesso tempo, la crisi destabilizza la pax germanica, mettendo a rischio gli istituti finanziari tedeschi, direttamente coinvolti nell’effetto domino che trasmette il rischio dal privato al pubblico al privato. Il sistema si potrebbe rimettere in moto solamente a patto che i tax-payers tedeschi decidano di salvare i paesi in difficoltà, e indirettamente le proprie banche, con trasferimenti fiscali che però in Europa, a causa della sua ibrida natura istituzionale (una moneta, tanti stati), non esistono. Né, apparentemente, i tedeschi hanno intenzione di creare meccanismi di aggiustamento – si oppongono strenuamente anche a una misura di semplice buon senso come gli eurobond – condizionati dai problemi elettorali della Merkel, impegnata fino allo strenuo nell’impossibile equilibrismo di difendere le tasche dei propri cittadini e le finanze degli istituti di credito di Berlino.

La soluzione proposta dal governo tedesco, dalla Ue e dalla Bce è una definitiva perdita di sovranità dell’area mediterranea senza neanche il beneficio di “annessione” alla Germania o a una Europa tedesca – proposta provocatoria ma a ben vedere non del tutto priva di fondamento. Quello che, in soldoni, si chiede è un tuffo nel passato, un ritorno al Gold Standard, un annullamento definitivo del ciclo elettorale in una situazione politica pre-democratica. I PIIGS dovrebbero dunque volontariamente sottoporsi a un duro ciclo di deflazione interna, disoccupazione alle stelle e brutali tagli salariali, per riacquistare la competitività perduta. Appunto, come avveniva con il Gold Standard, quando però non si votava, particolare non trascurabile. I costi in cui quei paesi incorrerebbero sono, in maniera evidente, superiori a qualsiasi beneficio che deriverebbe dal mantenere la valuta unica e, dunque, presto o tardi partiti anti-euro avrebbero la meglio. L’unica alternativa sarebbe un ritorno a un autoritarismo, anche soft, che imponesse sacrifici anche contro la volontà popolare – una soluzione che, da Mirafiori a piazza Syntagma, sembra sempre più prendere quota. Un nuovo cambiamento del patto sociale. Prima, nel secondo dopoguerra, la democrazia legata a doppio filo alla cittadinanza e al lavoro, poi la democrazia del debito che sopperiva alla riduzione del salario e metteva paletti assai ristretti al concetto di cittadinanza, infine il mercato senza democrazia una volta che, esplosa la bolla del debito, non siano più disponibili soluzioni di compromesso sociale con i milioni di lavoratori cui il salario non garantisce più l’indipendenza economica. La risposta che le destre – quella finanziaria e quella politica – rischiano di dare è quindi, da un lato, una possibile deriva tecnocratica-autoritaria che renda la democrazia un orpello inutile o, dall’altro, la rinascita di movimenti anti-euro e anti-Europa con connotati però fortemente nazionalisti quando non addirittura xenofobi. E d’altronde l’ascesa del nazismo in Germania e il propagarsi del fascismo nell’Est europeo furono proprio figli di crisi finanziarie che non riuscivano a trovare uno sbocco politico-economico come avveniva invece negli Usa del New Deal.

L’incapacità politica e culturale nel fornire una risposta progressista alla crisi attuale è forse l’aspetto più preoccupante di questo scorcio di inizio secolo. Al contrario di quanto auspicato da Fassina, la sinistra di cosiddetto governo è ancorata alle logiche neo-liberali poiché non capisce che siamo di fronte a una crisi di sistema, non a una semplice cambiamento di ciclo. Il libero mercato ha fallito, e con lui tutto l’insieme di relazioni sociali, politiche ed economiche che hanno caratterizzato 30 anni di rivoluzione capitalista. Non a caso la crisi è nata in America e ha coinvolto il settore di punta di quel capitalismo, il mercato finanziario. Non ha torto chi imputa lo sconquasso del 2007 a una mancata regolamentazione né, in linea di principio, ha torto Ostellino quando sulCorriere della Sera sostiene che la crisi nasca da una politica monetaria eccessivamente espansiva, con tassi di interesse talmente bassi da generare ondate speculative. Ma se tutto questo è vero, è però solo parzialmente vero perché quella mancanza di regolamentazione e quella politica monetaria erano le uniche opzioni possibili per far coesistere un mercato senza freni che accumulava la ricchezza e una comunità politica ancora democratica che non avrebbe potuto accettare una distribuzione eccessivamente iniqua del reddito senza una contropartita (la ricchezza fittizia garantita dai subprime). Questo la sinistra di governo non riesce a capirlo, non si spiegherebbe altrimenti come mai il Pd non riesca neppure a proporre l’imposta patrimoniale supportata addirittura da Montezemolo, Buffett e associazioni di ricchi tedeschi. Sarebbe questa la ritrovata autonomia culturale quando, secondo Modiano, attraverso un prelievo del 4% sulla parte più ricca del paese si riuscirebbero a reperire 200 miliardi più che abbastanza per mettere sotto controllo la dinamica debito/Pil e, al contempo rilanciare politiche di sviluppo? 

Nel frattempo la sinistra radicale non sembra in grado di dettare una nuova agenda, vuoi perché troppo debole, vuoi perché in realtà una agenda veramente innovativa manca ancora. Alcune questioni, solo all’apparenza tecniche, sono state illustrate da Mario Pianta: ridimensionamento della finanza, nuova struttura per le agenzie di rating, revisione del Patto di Stabilità. Magari riportando sotto controllo politico la Banca centrale europea e la politica monetaria, come suggerito da Palma, Leon, Romano e Ferrari. Più in generale, però, la vera questione dirimente, a mio parere, è legata al rilancio dell’alternativa alle istituzioni europee attuali, politiche ed economiche, a partire però non da iniziative nazionali ma a livello continentale, in quanto è evidente che i problemi dei disoccupati greci, degli indignados spagnoli e degli operai italiani sono, fondamentalmente, gli stessi. E pure i lavoratori dell’Europa del Nord avrebbero assai poco da guadagnare da un crollo dell’euro. Ha ragione Donatella Della Porta a porre il problema della democrazia al centro della sua riflessione sulla crisi europea. Basti pensare che anche sui giornali progressisti e nelle parole del Capo dello Stato la preoccupazione principale a proposito della manovra finanziaria riguarda la possibile reazione dei mercati e non quella dei cittadini, la cui vita viene colpita in maniera diretta. Si tratta dunque di rilanciare la centralità della democrazia soprattutto a livello comunitario proprio perché la crisi coinvolge l’Europa come continente e non solo i singoli stati – l’effetto contagio, le esposizioni delle banche tedesche e francesi nel sud del continente, i debiti pubblici incastrati l’uno sull’altro.  

Ha ragione Amato quando dice che l’unica vera alternativa consiste nel costruire l’Europa politica, rimediando dunque al peccato originale di Maastricht. Non basta però l’Europa politica se quella che ci propongono è l’Europa del pareggio di bilancio in costituzione, un'Europa unita anche a livello di politiche economiche ma dominata dal potere del mercato. Quello che serve è un'Europa politica e un'Europa democratica, che smetta di essere gregaria dei mercati, ricordandosi, con Dahl, che la democrazia è soprattutto un sistema di distribuzione delle risorse alternativo al mercato, e non una semplice cornice politica di quanto deciso dalle Borse internazionali. In breve, un’Europa caratterizzata da un nuovo contratto sociale – la vera cifra del superamento di una crisi di sistema. Questo cambiamento non può però avvenire per gentile concessione di eliteilluminate, che non ci sono, né si vedono all’orizzonte. La costruzione di una nuova Europa è possibile solo attraverso il rilancio dell’iniziativa politica a livello continentale, ripartendo dal basso, per dare voce alle lotte degli indignados, e una risposta alla questione sociale che dilaga dalle periferie di Londra all’Europa mediterranea. Quello che una volta era il compito della sinistra.


di Nicola Melloni, da www.sbilanciamoci.info









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Europa, salari, politiche pubbliche:
rassegna stampa
Massimo Mucchetti dal Corriere


L'emergenza che non vediamo

L' Economist dedica la copertina alla ricerca del lavoro che non c'è in tutto l'Occidente. Nei 34 Paesi dell'Ocse, i più avanzati del mondo, i disoccupati sono 44 milioni, più o meno gli abitanti della Spagna. Ma per calcolare quanti posti mancano davvero andrebbero considerati anche i lavoratori part-time che vogliono il tempo pieno (un posto ogni due tempi parziali), i dipendenti sottoposti a sospensioni lunghe dall'attività (un posto ogni 1.800 ore di integrazione salariale) e infine gli scoraggiati (coloro i quali non hanno più cercato lavoro negli ultimi tempi). I posti che mancano nell'area Ocse diventerebbero così 100 milioni.

Il diavolo che minaccia l'Occidente è dunque peggiore di quello dipinto dal settimanale britannico. E tuttavia, al di là dei numeri, colpisce l'enfasi dell'antica testata liberale sulla questione del lavoro mentre i governi europei e la Bce combattono il deficit dei bilanci pubblici senza troppo curarsi degli effetti collaterali che deprimono l'economia, e dunque l'occupazione. Certo, da tempo la Banca d'Italia invoca politiche per la crescita basate su riforme a costo zero come quella, peraltro inderogabile, della giustizia civile e quella, tutta da approfondire, del mercato del lavoro. Ma oggi tra la durezza della crisi e il riformismo in stile anni Novanta emerge la stessa distanza che separa i fatti dalle parole: vanno male anche i maestri di quella stagione. E allora torniamo a chiederci se ci possa essere una ripresa duratura senza invertire la ridistribuzione sempre più ineguale della ricchezza, quando sappiamo che il disastro è cominciato dall'insolvenza dei poveri fatti indebitare per farli consumare senza aumentare loro le paghe. E poi crediamo davvero che l'Italia possa basarsi soltanto sull'estero quando le imprese esportatrici, peraltro ottime, importano sempre più componenti? E l'Eurozona potrà mai riprendersi se i suoi 450 milioni di cittadini non torneranno a spendere?

Forse non è un caso se George Magnus, l'economista principe di Ubs che aveva capito la crisi dei mutui «subprime » prima della Casa Bianca, ora scrive su Bloomberg : «Date a Marx una chance di salvare l'economia mondiale». La sua è una provocazione. Ma resta il fatto che il balzo della produttività è avvenuto attraverso il taglio dei costi, il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti, gli arbitraggi fiscali e regolatori tra legislazioni e non solo attraverso il progresso tecnologico. Un processo che ha congelato i salari reali e aumentato la disoccupazione a tutto vantaggio dei profitti. Un'impresa riceverà applausi, se batte questa strada. Un Paese pure, se avrà l'accortezza di non costringere poi i clienti alla recessione, come invece sta facendo la Germania in Europa. Ma se lo fanno tutti? Se lo fanno tutti, ironizza Magnus, si entra nel paradosso marxiano della sovrapproduzione: il sistema ha fatto investimenti per sfornare una quantità di merci superiore alla sua capacità di consumo. E qualcuno deve pagare il conto.

Se non vogliono resuscitare il rivoluzionario di Treviri o, più probabilmente, esporre a tumulti nordafricani democrazie che ai giovani derubati della speranza sembreranno inutili, i governi dovrebbero porre in cima all'agenda il lavoro, non il deficit dei conti pubblici. E il lavoro si crea attivando la domanda interna. Anche a costo di un po' di inflazione.

Sul Financial Times , sir Samuel Brittan critica i flirt marxisteggianti. Ma non censura i rischi della stagnazione salariale né gli auspici d'inflazione. Del resto, la Bank of England e la Federal Reserve continuano a stampare moneta, sia pur virtuale. E pur avendo conti peggiori dell'Eurozona, i debiti pubblici di Regno Unito e Usa galleggiano. La Bce non lo fa perché non ha alle spalle un governo che glielo chieda. E l'euro trema.

In queste condizioni, l'Italia non può lasciar correre il deficit né disimpegnarsi sulla riduzione del debito. Ma rischia anche la recessione se non riesce a riorientare il risparmio privato dai deludenti impieghi finanziari verso gli investimenti nell'economia reale attraverso la leva della politica industriale (che non vuol dire un'altra Finsider ma, per esempio, no ai contributi esagerati per le fonti rinnovabili e sì al risparmio energetico). E la domanda interna non parte se, in attesa di poter alzare i salari, non si usa con coraggio la leva fiscale. È possibile, a parità di gettito, trasferire almeno in parte l'Irap alle retribuzioni e al tempo stesso aumentare l'Irpef? Far pagare la sanità a tutti i cittadini secondo aliquote progressive anziché alle imprese e ai dipendenti sarebbe anche un atto di giustizia. E se si vuole fare un po' di inflazione, a sollievo del debito pubblico, l'Italia dovrebbe convincere l'Eurozona ad aumentare l'Iva, così da spostare un po' di peso anche sulle importazioni, avendo cura di salvaguardare i redditi bassi con ritocchi dell'Irpef. Insomma, possiamo rialzarci. Ma ci vorrebbe un governo. Capace di politica interna e di politica estera.

13 settembre 2011 12:37