giovedì 7 luglio 2011

NO-TAV, BENI COMUNI E MODERNITA'. QUELLA VERA.

Il riaccendersi del dibattito sulla Tav in Val di Susa ci pone alcuni “nodi” relativi al rapporto tra democrazia e modernità e sulle dinamiche del processo politico all’interno della società italiana. Il pensiero dell’establishment di governo è mirabilmente riassunto da Irene Tinagli che su La Stampa di Martedì (vedi QUI) attacca il movimento No-Tav come retrogrado, preoccupato solo dei suoi interessi egoistici e indifferente di fronte ad un paese in declino.

La Tav - ci viene detto - è la porta sul futuro, come lo era internet dieci anni fa ed è un treno che non possiamo perdere; d’altronde, «tutti gli altri paesi europei hanno più chilometri di alta velocità rispetto al nostro paese», per non parlare poi della Cina e dei suoi investimenti futuristici in infrastrutture. Cerchiamo di capire meglio. Quando si fanno paragoni bisognerebbe avere contezza di ciò di cui si parla, cosa che purtroppo accade sempre più raramente, con la propaganda che soppianta l’analisi. Innanzittutto non è vero che l’Italia sia «il fanalino di coda» dell’Europa in fatto di alta velocità. La Gran Bretagna ad esempio ne ha assai meno. Magra consolazione, si dirà. E’ certamente vero che paesi come la Francia e la Spagna hanno investito massicciamente sul trasporto veloce su rotaia. E’ altrettanto vero, però, che la struttura geo-morfologica di quei paesi è assai diversa dalla nostra. La Parigi-Marsiglia non ha avuto bisogno di bucare nessuna montagna e così pure la Madrid-Barcellona. Quisquilie, davanti al miraggio di progresso che ci propone la Tav. Perchè «l’interesse generale deve prevalere sugli egoismi particolari»! In Francia, la patria dell’alta velocità, però, la parola finale su questi progetti spetta alla comunità locale, che viene coinvolta in tutti i passaggi e deve essere convinta della bontà dell’opera. I liberali (ma di che liberalismo si tratti, non è facile capire) alla Tinagli, in realtà, propongono un nuovo modello di patto sociale. Criticano in maniera assidua il cosiddetto Nimby (Not in my Back-yard, «non nel mio cortile di casa») e sono fautori agguerriti del modello thatcheriano Tina (There is no alternative, «non c’è alternativa»). Non solo per la Tav. Vale lo stesso per le finanziarie “ammazzapopolo” in Grecia – ce lo impone il mercato, l’Europa – o per la riduzione dei diritti sindacali in Fiat – che altrimenti andrebbe a produrre altrove. Il leit motiv, per altro, è il costante paragone farlocco con altri paesi.
In realtà delle alternative esistono sempre. La Tav, dice Tinagli, non è una schiacciante necessità, spiegando però che il senso degli investimenti è proprio quello di una «programmazione che guarda in avanti». Benissimo, ma il punto è il futuro che abbiamo in mente. Quali altri investimenti si potrebbero fare con i milardi della Tav? Forse nelle ferrovie regionali, migliorando le condizioni di trasporto (e dunque, di vita) di milioni di pendolari, favorendo in maniera decisiva la mobilità del lavoro. Magari si potrebbe puntare ad investire dove il paese ha un vantaggio comparato (ad esempio, le lunghe coste) e non dove invece ha problemi strutturali (la presenza di montagne). Si potrebbe valutare di ricostruire le aree portuali industriali che in Italia sono nel centro delle città di mare e che se spostate potrebbero essere messe in rete con un sistema di trasporti integrato che preveda meno trasporto su gomma, costi di trasporto inferiori (quelli marittimi sono i più bassi) ed il rilancio della cantieristica navale. Insomma, le alternative esistono eccome, guardano al futuro ben più della Tav, e se ne potrebbe, se ne dovrebbe discutere.

Perchè il senso della democrazia è che le decisioni, soprattutto quelle che riguardano il futuro del Paese, vanno prese insieme a tutti i soggetti coinvolti e non bisogna sempre obbedire alle deliberazioni senza appello prese da altri (l’Europa, i mercati). Il movimento No-Tav, dunque, è il cuore stesso del possibile risveglio democratico del paese, quel risveglio che, ad esempio, ha rifiutato nucleare e privatizzazione dell’acqua. Un filo rosso lo lega agli operai di Mirafiori, agli studenti anti-Gelmini, ai lavoratori greci. Per «coagulare una visione condivisa del bene comune» non si può più prescindere dal coinvolgimento della popolazione. Dalla democrazia.

Di Nicola Melloni da "Liberazione"

416 bis

Un video sull'infiltrazione delle mafie nel nord Italia, segnalatoci da Carla.

LA FRONTIERA

Il debito spagnolo ha vissuto ieri la sua giornata peggiore dallo scorso aprile, quando si impennò raggiungendo cifre record, spinto dalle prime voci di un secondo riscatto greco.
Ieri la minaccia veniva da molto più vicino, dal Portogallo, a cui Moody's ha declassato i titoli a livello di spazzatura rendendoli buoni solo per chi specula. L'agenzia di rating teme che anche il Portogallo necessiti una seconda ristrutturazione del debito ben prima di poter tornare a finanziarsi in modo autonomo sui mercati nel 2013, come era previsto; e si dubita anche che il Paese possa compiere gli obiettivi di riduzione del deficit e di stabilità che il FMI e l'Unione Europea gli hanno imposto per continuare a sganciare aiuti finanziari. Si tratta di previsioni, esiste la possibilità che non si avverino, ma è quanto basta per scatenare la tempesta sui mercati sull'altra metà della penisola iberica.

Le banche spagnole detengono il 42% del debito portoghese e sono le più esposte tra quelle del patto dell'euro; sono in gioco quasi 65 milioni di euro, contro i poco più di 27 con cui è esposta la Germania, per esempio. Scatta l'effetto contagio e diventiamo tutti appestati. Le zaffate del porcilaio in cui un sistema economico aberrante ed evidentemente fallito ha rinchiuso i pigs, iniziano ad ammorbare seriamente l'aria anche qui.

Salamanca sta a 100 chilometri dal confine portoghese e con la zona centrale del Portogallo ha intessuto negli ultimi 20 anni una fitta rete di relazioni che mirano a sviluppare politiche comuni per l'ordinamento del territorio, la conservazione del patrimonio culturale e lo sviluppo sociale. Vent'anni di conquiste comuni, in una zona alla periferia del regno, la periferia dei “periferici”, dove tutto è più difficile da ottenere proprio perché stiamo nel culo del mondo; conquiste ora spazzate via da quel copione che già conosciamo ma che molti ancora non comprendono. Gli organismi finanziari internazionali, per salvaguardare il sistema economico creato, armano di scure la mano di governi fantoccio (se ne cade uno se ne fa un altro), il cui taglio inesorabile colpirà sempre negli stessi deboli punti, pensioni, salari, sanità, educazione, sussidi di disoccupazione. E ora, in Portogallo, perfino sulla prossima tredicesima, in nome della “salvezza nazionale”. Tutti i lavoratori dipendenti con un salario superiore a 1000 euro per Natale perderanno almeno un quarto di tredicesima; una gabella quasi sicuramente incostituzionale e giustificata senza pudore dal Governo per la necessità imperiosa di battere cassa e di batterla sempre sulle fasce più deboli della popolazione.

Sulla frontiera lusitano-salmantina il contagio di questa peste bubbonica del XXI secolo che si chiama fallimento del sistema economico liberale si è tradotta immediamente in aumento del contrabbando, del lavoro in nero, quindi delle morti sul lavoro. E da questo lato della frontiera iniziano a serpeggiare il rifiuto ed il razzismo di chi vede coloro che vivono oltre il confine come depredatori delle poche risorse che qui rimangono.

Noi “periferici” siamo tutti cadaveri finanziari, con un grado di decomposizione più o meno alto, decretato di volta in volta anche dalle agenzie di rating. E la politica partecipa sommessa alla veglia funebre della democrazia, macabro spettacolo in cui il demos, quel popolo che di tutto dovrebbe essere il fulcro, si ritrova a dover pagare, suo malgrado, il funerale.

Di Monica Bedana