sabato 18 giugno 2011

Todo Cambia



Edda dal palco di TUTTINPIEDI ci ha ricordato che tutto cambia e Teresa De Sio l’ha ribadito con la sua straordinaria voce.
Sono rimasta incollata a RAI NEWS ieri sera, non potevo perdermi quello spettacolo meraviglioso offerto dalla FIOM e dal mondo del lavoro e della cultura.
Per tanto tempo forse ci siamo sentiti soli, isolati quasi abbandonati. Eppure eravamo in tanti ma forse non ancora sufficienti per risvegliare una speranza per questo nostro paese.
Ci siamo sentiti orfani dei partiti e di una classe politica dirigente capace di interpretare le nostre aspettative, le nostre esigenze, le nostre volonta’ di cittadini e cittadine. Molti di noi guardavano e collaboravano con quella parte della societa’ che si organizzava per far sentire la propria voce, per lanciare proposte, per difendere i nostri diritti di lavoratori, di studenti, di cittadini. I partiti ci avevano dimenticati, troppo occupati a pensare come salvarsi la “cadrega” (la sedia). Quante volte abbiamo ripetuto che erano autorefrenziali perche’ non rappresentavano la societa’ che “pretendevano” di rappresentare.
Le vittorie alle amministrative e ai referendum ci hanno restituito il sorriso e ora quando ci contiamo scopriamo che cresciamo.
Certo e’ importante non abbassare la guardia perche’ sarebbe un errore ma continuare a fare la nostra parte nelle nostre citta’, nei paesi dove viviamo e lavoriamo e’ piu’ semplice quando si vede la luce in fondo al tunnel.
In Inghilterra, dove vivo, i miei colleghi inglesi erano increduli per questo vento di aria fresca che soffia in Italia. Ci avevano dati per spacciati, ci consideravano un popolo straordinario per la nostra arte ma patetico per la nostra capacita’ di consentire al sultano di spadroneggiare. E’ stata una vera e propria gioia poter dire loro che un’Italia libera e pensante c’e’, c’e’ sempre stata e attraverso la costanza, la voglia di cambiare la societa’ ha lottato e resistito anche quando veniva voglia di gettare la spugna.
TODO CAMBIA ma puo’ succedere solo se saremo uniti come lo siamo stati in questi ultimi mesi.
La FIOM in questo cammino di cambiamento ha giocato un ruolo importantissimo. Ha saputo unire tutti gli “idignati” italiani, dai precari, agli studenti, dagli insegnanti agli artisti. Tutti insieme con gli operai che a Mirafiori e Pomigliano ci hanno dato una lezione di lotta per la difesa dei propri diritti e del proprio sindacato.
Ieri una parte dell’Italia migliore era rappresentata a Bologna alla festa dei 110 anni della FIOM. Persino Benigni ha sentito di non poter mancare.
E’ bello non sentirsi soli, e’ bello vedere un risveglio, e’ bello pensare che in fondo il sacrificio quotidiano di ciascuno di noi all’interno delle nostre associazioni, dei nostri comitati per la difesa di questo o quel diritto, di semplice cittadino che ha deciso che Resistenza sia una parola d’ordine, sia un sacrificio che paga quando la cittadinanza risponde come ha saputo fare sui referendum, quando ha il coraggio di eleggere un De Magistris a Napoli gridando la voglia di legalita’.
TODO CAMBIA se sapremo oggi ancora resistere per domani ricostruire.
Carla

L’onda lunga del tracollo greco che parla all’Italia


Sotto l’onda lunga del tracollo economico greco anche il resto dell’Europa sembra annaspare con sempre più difficoltà. I tassi sui titoli di stato ellenici sono schizzati al 18% mentre l’irrequietezza tocca anche le due altre economie per ora più colpite dalla crisi, quelle irlandese e portoghese. La novità è che, secondo la Banca Europea, queste tensioni stanno ora raggiungendo il cosiddetto “terzo anello”, cioè i paesi non ancora colpiti da attacchi speculativi ma che, per ragioni diverse, sono considerati “a rischio”. In Spagna, Belgio ed Italia il differenziale tra tassi d’interesse tedeschi e quelli dei paesi a rischio si sta ampliando, segnalando in maniera chiara che il mercato teme che la crisi non si fermi ad Atene e che il tanto paventato effetto domino arrivi a colpire il cuore dell’Europa.
Per evitare che questa situazione di tensione degeneri in panico, la Banca Centrale chiede interventi decisi per tranquillizzare le piazze finanziarie, ed in particolare, nel caso del nostro paese la BCE pretende certezza su quali siano le misure che il governo intende adottare per ridurre il deficit fino al 2014. Fatti, non parole, che sono invece la specialità del nostro esecutivo. A Roma è tutto un alzarsi di voci in libertà: da una parte, dopo dieci anni di governo quasi ininterrotto si ritira fuori la riforma fiscale sempre annunciata e mai fatta; dall’altra Tremonti resiste alle pressioni di Berlusconi e della Lega in nome del rigore dei conti. In mezzo il paese che pian piano rotola sempre più in basso, vittima di veti incrociati, di lobby affaristiche poco chiare quando non proprio criminali, di grandi interessi che sfruttano la loro rendita di posizione.
L’Italia sembra trovarsi con le spalle al muro, stretta tra la crisi economica, il peso del debito pubblico e la necessità di rilanciare l’economia. Per Tremonti risorse per fare la riforma fiscale non ci sono, ed è escluso che si possa farla in deficit, mentre l’Europa insiste che vengano trovati proventi addizionali per ridurre il deficit ed in prospettiva il debito.  Il messaggio che ci viene lanciato è che l’Italia non possa permettersi politiche di rilancio economico e che le uniche “riforme” possibili siano i tagli alla spesa pubblica. Questo però vorrebbe dire affossare definitivamente l’economia reale, aggravando il circolo vizioso debito-tagli-stagnazione-debito. Il paese, dopo un ventennio di politiche restrittive ha bisogno urgentemente di rilanciare la crescita, anche se certo i conti pubblici vanno tenuti d’occhio per evitare che la grande speculazione travolga l’economia italiana.
Si tratta di rilanciare gli investimenti puntando non sulla precarietà dei lavoratori e su salari minori, ma su incentivi fiscali che mirino ad aumentare l’occupazione e il reinvestimento dei profitti. Allo stesso tempo bisogna incrementare i consumi, favorendo soprattutto quelli medio bassi. I soldi ci sono, si tratta di trovarli. In un paese in cui negli ultimi trent’anni il reddito da lavoro e quello da capitale si sono mossi in direzioni opposte, impoverendo larghi strati della popolazione mentre le rendite dei pochi aumentavano, il tesoretto che serve per rilanciare l’economia e cominciare a mettere in ordine i conti pubblici va trovato nelle tasche di chi più ha preso, spesso in maniera per altro poco lecita. Certo la lotta all’evasione fiscale va ulteriormente rinforzata, ma non può bastare, almeno nel periodo iniziale. Bisogna colpire le rendite finanziarie, tassate ad un livello ridicolo, ed i patrimoni più consistenti. In Italia parlare di tali politiche sembra una bestemmia, ma si tratta di scelte quanto mai ovvie, che si basano non solo su una logica di equità ed eguaglianza (valori che la politica dovrebbe ricominciare a far propri) ma anche e soprattutto su una ferrea razionalità economica. Tassare i patrimoni improduttivi per rilanciare gli investimenti produttivi, ridurre il reddito disponibile di chi non lo consuma a favore invece di chi non ha risparmi sono misure dai sicuri benefici. Certo, sono misure anche impopolari in diversi settori della popolazione (ma non lo dovrebbero essere, ad esempio, tra gli imprenditori interessati a rilanciare la loro fabbrica e non allo sperpero nel lusso), ma d’altronde la politica è fatta di scelte. Mentre i governi berlusconiani hanno sempre fatto scelte di campo chiare – in favore dell’evasione, della rendita, degli interessi privati, sempre contro la scuola pubblica, l’università, il lavoro salariato – i passati governi di centro-sinistra hanno privilegiato un approccio che cercava di accontentare tutti, finendo con lo scontentare sia il tradizionale elettorato di sinistra che non vedeva la situazione cambiare in maniera decisa, sia quello di destra, comunque meglio protetto da Berlusconi&company.  Ora, con la crisi alle porte, ed il rischio del definitivo tracollo economico, è giunta l’ora delle scelte. Radicali.
Nicola Melloni (Liberazione)

Chi paga i conti della Grecia?


La crisi greca sembra ormai senza fine, confermando le fosche previsioni che avevamo fatto da queste pagine. Non solo il piano di salvataggio è andato completamente a vuoto, ma ora la situazione è addirittura peggiorata, costringendo Ue e Fmi ad un nuovo intervento, quantificabile in circa 80 miliardi, che però sembra creare fratture difficilmente componibili tra i vari stati membri dell’Europa. Tedeschi e paesi nordici sostengono che la Ue debba “aiutare” Atene, ma non da sola e che anche gli investitori privati debbano assumere una parte del peso finanziario di tale operazione. La Bce, sostenuta da Francia e Belgio, nega invece a priori un coinvolgimento dei privati. Il discorso di Berlino è molto semplice: se la Grecia dovesse fallire le prime a pagare sarebbero le banche che hanno comprato i titoli greci (e che sono, in maniera ormai evidente, il motivo principale per cui l’Europa tutta vuole evitare il default ellenico) e dunque, secondo la Merkel, è giusto e normale che quelle stesse banche si facciano carico di una parte degli oneri del salvataggio di Atene – in fondo si tratta di una operazione fatta nel loro interesse. A Francoforte, invece, si sostiene la tesi opposta. Coinvolgere le banche nel salvataggio (cioè obbligarle a riacquistare i titoli greci in scadenza) equivarrebbe a dichiarare un fallimento “parziale” di Atene con conseguente effetto a catena sul resto dell’area Euro. Le banche coinvolte avrebbero problemi di liquidità e, inevitabilmente, temerebbero che il pacchetto greco venisse prima o poi esteso alle altre economie europee in difficoltà, dall’Irlanda al Portogallo, in tal maniera scatenando un panico preventivo nei mercati finanziari in cui si cercherebbe di liquidare al più presto i titoli di quei paesi, aumentando i tassi di interesse, peggiorando la situazione debitoria e facendo infine crollare le economie di quei paesi. Si tratterebbe, in buona sostanza, di profezie auto-avverantisi (self-fulfilling prophecies). Secondo Draghi, la Bce e l’Europa devono assolutamente evitare che si ripeta un nuovo caso Lehman, la banca americana che fallendo generò il collasso dell’economia globale nel 2007-08. Il governatore europeo in pectore sostiene che nessuno può sapere quali sarebbero le conseguenze di un default greco, quali sarebbero le banche colpite, quali rischierebbero la paralisi e la bancarotta.
Il rischio è che davanti ad un effetto a catena sul sistema creditizio europeo, i governi dell’Unione debbano nuovamente intervenire con un altro bail-out, non avendo però questa volta abbastanza risorse a disposizione. Quello che dice Draghi è in larga misura condivisibile e rischi per la stabilità non solo delle banche, ma dei governi della Ue, sono più che reali, come avevamo anticipato già da tempo. Quello che però rimane senza risposta è come mai, a quattro anni dal fallimento di Lehman, ci si ritrovi nella stessa situazione. Ci avevano detto che l’Occidente aveva capito gli sbagli fatti, che il sistema finanziario internazionale sarebbe stato riformato, che il peso delle banche sarebbe diminuito e le loro attività meglio controllate per evitare rischi sistemici e l’obbligo di salvataggio di istituti troppo grandi per esser lasciati fallire. Nulla di tutto questo è stato fatto e Draghi dovrebbe poterci dire qualcosa a proposito, in virtù anche del suo ruolo di presidente del Financial Stability Board.
In realtà in questi anni non si è data nessuna risposta di sistema alla crisi del capitalismo finanziario. Si sono salvate le banche con modalità a dir poco discutibili, senza intervenire sulla natura del problema, il ruolo fuori controllo che gli istituti finanziari hanno nell’economia globale. Invece di ridurne le dimensioni, si è lasciato che le banche crescessero ancora. Invece di porre ferrei controlli sui movimenti di capitale e sulla speculazione, si è lasciato nuovamente che il mercato si auto-regolasse. Si è sostanzialmente lasciato che le banche ricominciassero ad investire in attività remunerative senza che portassero il rischio di tali investimenti: va bene guadagnare il 16% annuo sui bond greci, ma non va bene che gli stessi bond non vengano ripagati da un paese che è in sostanziale bancarotta. L’economia europea continua a muoversi come un pendolo, oscillando tra le perdite delle banche trasformate in debito pubblico ed i titoli del debito pubblico acquistati dalle banche e garantiti da nuove emissioni di contante degli stati europei. Nel frattempo ai cittadini è chiesto di stringere la cinghia mentre le banche sono le uniche a non aver pagato le conseguenze della crisi che hanno originato. Alla faccia del libero mercato e del rischio d’impresa, il mondo in cui viviamo rimane sempre e comunque caratterizzato da profitti privati e perdite pubbliche. Il problema è che non è rimasto più denaro per continuare con questo giochino.
Nicola Melloni (Liberazione)