martedì 5 aprile 2011

Salvare le banche ad ogni costo


Le decisioni di politica economica di questi ultimi giorni ci offrono un panorama assai sconsolante sulla capacità delle istituzioni dell’Europa di agire in nome del bene pubblico. Tutti i governi del mondo occidentale in questi ultimi quattro anni si sono impegnati in costosi salvataggi delle banche sull’orlo della bancarotta. Si trattava di operazioni probabilmente indispensabili – un generale fallimento delle banche avrebbe avuto effetti disastrosi sull’economia reale – ma che dovevano essere accompagnate da una rivisitazione generale del modello economico che aveva portato a tale crisi, a cominciare naturalmente dal ruolo stesso che le istituzioni finanziarie hanno nel capitalismo occidentale. Purtroppo stiamo invece andando in direzione completamente opposta.

Nei giorni scorsi, in Irlanda il nuovo governo ha varato un nuovo piano di salvataggio per le banche, dopo quello dell’anno scorso che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi derivati dal comportamento sconsiderato e dalla situazione fallimentare delle banche irlandesi. Gli stress test da poco effettuati hanno però mostrato che il piano del precedente governo era assolutamente inadeguato e che altri 24 miliardi di euro sono necessari per salvaguardare l’esistenza stessa del sistema bancario, portando il totale dell’intervento pubblico di Dublino alla quota di 70 milardi di euro – un debito che mette a repentaglio gli standard di vita per una intera generazione di irlandesi.

La situazione è anche peggiore, se possibile, in Portogallo che sembra prossimamente destinato a fare la stessa fine di Grecia e Irlanda e dover ricorrere all’intervento di Unione Europea e FMI per poter fronteggiare il propio debito. Venerdì, la vendita di bond è riuscita, seppur ad un tasso più alto del 40% rispetto a quello dello scorso anno. Pare che i compratori siano stati soprattutto Brasile e Cina, il che indica molto chiaramente la nuova geografia economica e politica che si va delineando all’indomani della crisi del 2007. Una ex-colonia corre in aiuto della veccha potenza imperialista per evitarne il collasso, un aiuto, sia chiaro, che vuol dire potere. Ma la vendita di venerdì non è comunque sufficiente e molto probabilmente a Giugno il Portogallo sarà costretto a ricorrere al pacchetto di salvataggio europeo. Pacchetto che a Lisbona vorrebbero evitare dato lo scarso successo dei precedenti greci ed irlandesi. A fronte di interventi brutali per ridurre la spesa pubblica in quei due paesi – condizioni standard dell’aiuto del Fondo e della UE – il costo del denaro si è mantenuto a livelli altissimi (segnalando che i mercati finanziari ancora scommettono sul fallimento di Atene e Dublino nonostante l’aiuto europeo che non gode evidentemente di grande credibilità) mentre la recessione economica avanza (-11% in Irlanda, -6% in Grecia).

Di fronte ad una situazione di questo genere, in cui la periferia dell’Europa sembra destinata allo sfascio economico e sociale, i problemi che tormentano la Banca Centrale Europea sembrano ben altri. La BCE sembra infatti intenzionata ad alzare i tassi di interesse per contrastare l’impennata inflazionistica (!) che sta colpendo negli ultimi mesi l’Europa, una mossa che dimostra la totale ottusità della più importante e potente istituzione comunitaria. A Francoforte sono preoccupati delle conseguenze che il rincaro dei prezzi potrebbe avere sulle economie del nostro continente, ma la realtà è che l’inflazione a livello europeo è al 2,6%. Non esiste nessuna prova empirica che tale livello sia dannoso per l’economia, anzi. Studi comparati hanno più volte dimostrato che livelli inflattivi tra il 20 ed il 50% possono creare seri danni alla crescita economica, ma siamo naturalmente ben lontani da quei numeri. Ciò nonostante si cercherà di frenare la crescita dei prezzi (generata per altro da fattori esterni come i prezzi delle materie prime, e non da un surriscaldamento delle nostre economie) aumentando i tassi, accompagnando però tale operazione da un illimitato accesso al credito per il sistema bancario privato così da garantirne la liquidità. La salita dei tassi di interesse avrà effetti negativi sulla crescita economica, come ovvio. La BCE è convinta che la ripresa economica sia ormai in atto in tutta Europa, ma se questo è vero in Germania è assurdo sostenere lo stesso per Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Un innalzamento del costo del denaro comporterà oneri aggiuntivi per questi paesi che già al momento non sono nella condizione di ripagare il proprio debito, come segnalato dal downgrade dei bond portoghesi e greci effettuato in settimana da Standard&Poor’s e Fitch. A Francoforte però si giustificano sostenendo che il compito principale, se non unico, della BCE è tenere bassa l’inflazione (e garantire la tenuta del sistema bancario) e dunque agisce di conseguenza.

Una verità che nasconde però un’idiozia. Certo, è vero, il mandato della BCE è tenere sotto controllo l’inflazione, ma questo mandato è il frutto di un passato fallimentare, il risultato, insieme al patto di “stupidità-stabilità”, della deriva ideologica neo-liberale subita dall’Europa negli anni 90. E che tuttora si trascina, con Trichet preoccupato di un marginale incremento del livello dei prezzi mentre milioni di europei sono disoccupati e sotto la soglia di povertà. La verità è che ancora oggi, dopo 4 anni dall’inizio della crisi, i soldi per le banche si trovano. Li trova la BCE col suo credito illimitato, li trova il governo irlandese con un altro prestito straordinario. Ma non si trovano per i lavoratori, anzi, gliene si chiedono sempre di più. Tagli di spesa, imposte più alte, un martellamento continuo. Politiche fiscali restittive, in tempo di crisi, per compiacere i mercati finanziari, soldi facili alle banche accompagnati da politiche monetarie restrittive per mantere sotto controllo il livello dei prezzi, nuovamente in nome della stabilità economica richiesta dai mercati. Si tratta di una deriva che possiamo tranquillamente definire anti-democratica. Alla luce di questa crisi è completamente inacettabile che la BCE non sia sottoposta ad un vero controllo popolare, che continui a lavorare solo in favore dei mercati e non dei cittadini. Lo stesso fanno i governi di mezza Europa condannandosi ad un futuro di miseria e povertà mentre avanzano le nuove economie emergenti, che dopo aver sofferto secoli di imperialismo politico ed economico sono pronte a conquistare un’Europa ormai in ginocchio.

Nicola Melloni (da liberazione)

Io non mi sento una quota rosa

Di Monica Bedana
Lo scorso 15 marzo è stato approvato in Senato il decreto legge che regolerà in quote la presenza femminile nei Consigli di Amministrazione delle società quotate in Borsa, di quelle controllate dalle Amministrazioni dello Stato e nei loro rispettivi collegi sindacali. Si tratta di una norma transitoria, valida per tre mandati dei suddetti Consigli di Amministrazione, che sarà introdotta poco a poco, con l'intento di raggiungere nel 2018 quel 30% di donne “in posti di rilievo”. L'Unione Europea preme da tempo per raggiungere l'uguaglianza tra i sessi in ogni campo e se ciò non avviene nel modo spontaneo che sarebbe logico auspicare, allora scatta l'imposizione. E cosí anche l'Italia, dopo varie tribolazioni per condurre in porto l'iter del decreto legge (tribolazioni sfociate in successivi emendamenti, che la dicono lunga sull'entusiamo generale e la coesione con cui si è arrivati all'approvazione del Senato), segue la scia di quei Paesi mirabili come Svezia e Finlandia, in cui più del 25% dei consiglieri d'amministrazione di aziende pubbliche sono donne.

Dovrei essere contenta e non lo sono affatto. Non lo sono perché mi chiedo cos'è successo (o cosa NON E' successo) dal 1957 ad ora, quando l'uguaglianza tra uomini e donne era già , in teoria, uno dei principî fondatori dell'Europa che stava nascendo, del trattato di Roma. E mi chiedo anche dove finisce quel 60% di donne con titolo universitario che vivono (e lavorano, ma non sempre) nell'Unione Europea. Molte in azienda ci entrano, ma solo un 12% fa carriera ed arriva ad occupare posti di responsabilità, perché la discriminazione avviene molto molto prima, è intimamente connessa al nostro tessuto sociale e per quanto la situazione si sia evoluta siamo ancora lontanissimi dall'uguaglianza di base. Solo quando le donne non porteranno più esclusivamente sulle loro spalle il peso dell'organizzazione della famiglia, dei figli, degli anziani e quando la maternità non sarà più vista in azienda come una palla al piede, allora noi donne avremo davvero pari opportunità nell'acceso al mondo del lavoro in generale, non solo alle sue sfere più alte.

La parola d'ordine dovrebbe essere “conciliazione” tra vita familiare e lavorativa e strumenti, misure educative, provvedimenti istituzionali, strutture per attuarla e renderla finalmente realtà, ma anche cambio radicale nell'educazione, nella cultura. L'imperativo delle quote rosa mi crea franco imbarazzo come donna; se ho la stessa (o migliore) preparazione e talento di un uomo, ho diritto ad essere scelta per merito e non imposta per quota. Non a caso i Paesi in cui l'incorporazione della donna in posti di direzione avviene oggi in modo naturale e raggiunge o supera la percentuale di quasi parità, sono quelli del nord Europa in cui si applicano con serietà politiche che favoriscono la conciliazione tra lavoro e famiglia. Più a sud invece, in Spagna per esempio, dove io vivo e dove fin dal 2007 la politica di uguaglianza promossa dal Governo ha sollecitato alle aziende la parità dei sessi nei consigli di amministrazione (l'obiettivo è di raggiungerla nel 2015 con la legge per l'effettiva eguaglianza), è passata soltanto dal 3% al 10% negli ultimi sette anni, un miglioramento piccolissimo. Anche in Spagna la donna è schiacciata dal peso delle responsabilità familiari, le stesse che competono all'uomo ma di cui egli non si occupa che in minima parte; ed è lasciata sola a fronteggiarle, con l'aggravante che negli ultimi due anni la crisi economica mondiale ha falciato i posti di lavoro ed i tagli imposti dalla crisi hanno in parte cancellato gli aiuti previsti per favorire l'inserimento femminile nel mondo del lavoro. Noi donne siamo, paradossalmente, il nucleo duro della società e, al tempo stesso, l'anello più debole nella catena dell'uguaglianza sociale.

Nella questione delle "quote rosa", l'Italia ha, a mio avviso, un peculiare problema aggiunto: essendo un Paese fondato su un sistema clientelare, mi chiedo quali donne occuperanno quella percentuale prestabilita di “poltrone” dei Consigli di Amministrazione di società quotate in Borsa: le amiche degli amici? Le Minetti laureate “col massimo dei voti e di madrelingua inglese”? Le olgettine al completo? O mi dovrebbe tranquillizzare il fatto che l'applicazione del decreto legge “andrà monitorata”?

“Non si nasce donna, si diventa”; lo diceva Simone de Beauvoir. E a che prezzo.