lunedì 7 marzo 2011

Radio: ascolta intervista Resistenza Internazionale

http://nxwz1o.cjoint.net/

LO SCONTRO SOCIALE CHE DECIDERA' IL FUTURO DELL'AMERICA

La battaglia per il Winsconsin si sta velocemente trasformando nella guerra per il futuro dell'America. I Tea Party e la destra repubblicana sono ormai decisi a far pagare il prezzo della crisi ai lavoratori e si stanno organizzando di conseguenza: a livello locale è partito l'attacco diretto ai sindacati in Winsconsin e più recentemente in Ohio; a livello federale l'offensiva è sul budget del governo, con una strategia estremista che minaccia di far letteralmente chiudere gli uffici pubblici se non passeranno i tagli al bilancio che chiedono da destra.
Tutta questa canea è supportata da un furore ideologico senza precedenti negli ultimi anni, nonchè da una montagna di falsità sparse a piene mani dai media controllati dal grande capitale, ma anche da una strategia politica molto chiara che cerca di dividere i lavoratori e punta alla resa dei conti con quel poco di "sinistra" che rimane negli Stati Uniti, che di questo passo rischiano di trasformarsi nella "più grande oligarchia del mondo". Nel Winsconsin i Repubblicani sostengono che, davanti ad una situazione di grave deficit dello Stato, stanno solo chiedendo ai lavoratori pubblici (l'unico settore in cui i sindacati hanno ancora un certo potere) di contribuire parzialmente a ridurre i costi, soprattutto in virtù del fatto che proprio i dipendenti pubblici sarebbero dei privilegiati, vantando salari in media più alti dei lavoratori del privato. Si tratta di una bugia clamorosa. Anzi è vero l'esatto contrario. Ma il punto cruciale, in realtà, è un altro: Walker, il governatore del Winsconsin, non vuole ridurre i presunti privilegi dei lavoratori, vuole annullare la loro capacità di contrattare collettivamente: un modello-Marchionne portato alle estreme conseguenze. Gli aumenti salariali sarebbero limitati per legge e sarebbe possibile ricevere aumenti superiori al tasso di inflazione solo se approvati da un referendum! Si tratta, una volta di più, di una svolta autoritaria che lede la democrazia nel luogo di lavoro, che propone l'equazione diritti=privilegi e che non riconosce il diritto di associazione come parte integrante del sistema democratico. In nome della libertà di scelta individuale si nega la possibilità di contrattare collettivamente, fingendo di non sapere che la nascita dei sindacati è avvenuta proprio per controbattere l'asimmetrico rapporto di forza tra padrone e lavoratore.
La destra sta cercando di dividere la cosiddetta middle-class (concetto non molto ben definito negli Usa, dove il 91% della popolazione si definisce classe media), scatenando i lavoratori sindacalizzati contro coloro che non lo sono, gli anziani con alcuni benefits sociali contro i giovani che rischiano di non goderne, i lavoratori pubblici contro quelli del settore privato. Si tratta della riproposizione della classica guerra tra poveri, utile ad evitare di affronare alla radice la questione economica e sociale che attanaglia l'America. Si cerca di spiegare i problemi di deficit dei vari stati americani come colpa dei sindacati, anche se, in realtà, diversi Stati senza diritti sindacali (Nevada, Arizona, etc..) hanno deficit sostanzialmente superiori a quelli dove la contrattazione collettiva esiste ancora (Massachusetts, Montana, etc..). Altrove, come in Texas, dove le protezioni sindacali sono praticamente inesistenti, si stanno tagliando i fondi all'assitenza sociale e alla scuola, in uno Stato dove il settore scolastico è gravemente sottofinanziato e le performance del sistema educativo sono tra le peggiori degli Stati Uniti. Nessuno nega, naturalmente, che esista un problema di deficit di bilancio. Il punto però è spiegarne correttamente l'origine, che non è la spesa pubblica improduttiva, o i privilegi sindacali, ma è una ricaduta della crisi finanziaria che ha diminuito le entrate fiscali. Proprio per questa ragione diversi Stati (tra gli altri New York, Hawai, Illinois, lo stesso Winsconsin prima dell'elezione di Walker) hanno aumentato in maniera progressiva la tassazione. Ma naturalmente le grandi corporations non ci sentono da questo orecchio.
La situazione è simile, seppur potenzialmente più grave, a livello nazionale. Non molto tempo fa il Congresso ha approvato la riforma fiscale che ha reso stabili i tagli alle tasse per la parte più ricca della popolazione. Ora il governo federale si trova in una situazione di crisi, il debito - grazie agli aiuti concessi alle banche negli ultimi anni - ha raggiunto livelli quasi italiani ed è necessario introdurre misure per rientrare entro limiti più accettabili. Il punto, naturalmente, è come farlo. I repubblicani vogliono imporre tagli draconiani (4 miliardi di dollari solo nelle prime due settimane) che ovviamente andrebbero a colpire i redditi più bassi, quelli che beneficiano dei programmi di assistenza pubblica. Si dice che aumentare le tasse non sarebbe popolare dal punto di vista politico e deleterio dal punto di vista economico, ma non è che i tagli abbiano un impatto diverso, avrebbero solo la semplice ma fondamentale differenza di colpire più i ricchi dei poveri. Il tutto in un Paese dove la sperequazione economica ha raggiunto i livelli più alti dell'ultimo secolo e dove l'anno scorso tredici manager di hedge funds hanno percepito un salario medio di un miliardo di dollari ciascuno, tassato al 15 percento (l'aliquota sui capital gains è minore di quella sui redditi da lavoro). Peraltro, una tassazione progressiva sui patrimoni più alti non sarebbe solamente giusta da un punto di vista etico, ma avrebbe anche senso economico, diminuendo il reddito disponibile di quella parte della popolazione con minor propensione al consumo (i ricchi, in proporzione, consumano una parte minore del reddito) ed avendo quindi un'impatto regressivo minore dei tagli.
La destra reazionaria sta sfruttando la crisi per imporre la sua visione del mondo. E' ben allenata a farlo, lo ha fatto in passato in Russia, in Africa, in Asia ed in America Latina sfruttando le crisi finanziarie generate dalla speculazione finanziaria per imporre istituzioni che favorissero la penetrazione economica del capitale internazionale. Lo ha fatto nei mesi scorsi in Irlanda, in Grecia, nel Regno Unito. E lo sta facendo ora in America, dopo un momento di sbandamento successivo alla crisi, imponendo il ribaltamento delle promesse che avevano portato Obama alla presidenza. Si tratta di una destra bene organizzata, con forte coscienza di classe, con mezzi economici e mediatici spropositati con cui finanzia i politici che possono servire meglio i suoi interessi, facendo a pezzi, nel frattempo, la democrazia americana e trasformandola in un'oligarchia, dove è il denaro, e non il voto, a determinare le scelte politiche. Un'oligarchia che ha al suo servizio interi partiti, mentre le opposizioni della cosiddetta sinistra rifiutano di riconoscere il carattere classista del capitalismo e lasciano senza copertura politica i lavoratori. Questi movimenti sociali spontanei cercano di resistere ed hanno un vasto appoggio popolare (la maggioranza degli americani supporta la difesa dei diritti sindacali), ma vengono ripetutamente sconfitti proprio a causa delle deficienze della sinistra istituzionale, della sua difficoltà a produrre soluzioni alternative. Solo la capacità di recuperare un'analisi critica del capitalismo, delle sue dinamiche, potrà dare uno sviluppo politico a quei movimenti e cominciare a costruire un'alternativa alla delirante ideologia mercatista. 
Nicola Melloni (Liberazione, 3-03-11)

Cos’è la ricerca, davvero



Un italiano di 29 anni a Cambridge annuncia la sua intenzione di arrendersi alle frustrazioni della vita del ricercatore, e scatena un gran dibattito in rete


Massimo Sandal, 29 anni, laureato in biotecnologie industriali all’Università di Bologna e attualmente ricercatore a Cambridge in Inghilterra – si era parlato del suo lavoro sul morbo di Parkinson tre anni fa – ha scritto dieci giorni fa sul suo blog un lungo post in inglese sulle frustrazioni del lavoro nella ricerca scientifica. Si concludeva con un’annunciata intenzione di “riprendersi la vita” e ha avuto nei giorni seguenti una notevolissima circolazione e discussione in rete (Sandal è tornato sull’inattesa dimensione del dibattito qualche giorno dopo). Il Post gli ha chiesto di spiegare ai profani quali siano le ragioni di tanta sensibilità ai temi della vita dei ricercatori.

Molti guardano la ricerca scientifica dall’esterno, come fosse una torre d’avorio in cui personaggi dal cranio rigonfio di materia grigia discutono con apollinea serenità i misteri dell’universo. Chi vede la cosa da fuori cosa vede? Quando va bene, professori sorridenti che spiegano la nuova (possibile) cura per il cancro, che commentano le ultime foto di Hubble o il riscaldamento globale. L’impressione che danno i media è quella di un mondo di mattacchioni che discutono serenamente di bosoni, scioglimento dei ghiacci e DNA, senza nessun’altra preoccupazione al mondo.

Sono fesserie. Chi fa ricerca giorno dopo giorno non sono i professori (che hanno un ruolo fondamentale, per carità: ma più di guida, networking e fundraising che altro). Sono i giovani: i dottorandi e i cosiddetti “postdoc” (ricercatori post-dottorali, che hanno un titolo di dottorato ma che non lavorano ancora indipendentemente). Costoro, benché anonimi, sono quelli che fanno tutto il lavoro vero e proprio e sono alla base di una piramide, e questo di per sé sarebbe normale (le gerarchie sono ovunque, di operai ce ne sono tanti e di Marchionne uno solo). Il problema è che si tratta di una piramide su cui non puoi mai fermarti: devi scalarla o perire.

Mi spiego meglio. Se io entro in FIAT per fare l’operaio o l’impiegato, è probabile che io possa rimanere in eterno a fare l’operaio o l’impiegato. Nessuno (che io sappia: potrei sbagliarmi) mi obbliga a fare carriera per diventare dirigente. Nella scienza invece tu non puoi rimanere a fare il ricercatore ad libitum.
La carriera funziona così. Quando uno inizia il dottorato, neolaureato, inizia a fare ricerca vera e propria. Fa esperimenti, calcoli, ipotesi, teorie eccetera: tutto quello che ci si aspetta faccia uno scienziato, magari sotto l’occhio vigile di un dottorando più vecchio o di un postdoc.

Alla fine se tutto va bene il nostro dottorando, dopo tre-quattro anni (o anche più fuori dall’Italia) vissuti chiuso in un laboratorio, rinunciando alle serate e ai weekend, grottescamente malpagato, senza la minima rappresentanza professionale a difendere i suoi inesistenti diritti, avrà realizzato un paio di lavori scientificamente dignitosi, e li avrà pubblicati su una rivista scientifica “peer reviewed”.

Se il suo capo non è un totale figlio di buona donna, avrà avuto riconosciuto il suo lavoro con il primo nome nella lista degli autori: una finezza che significa tutto (avere articoli come primo autore è conditio sine qua non per qualsiasi progresso di carriera; uscire dal dottorato senza un “first-author paper” significa una quasi certa condanna a morte accademica. Avere il primo nome significa che il lavoro “è tuo”, gli altri nomi sono collaboratori secondari o supervisori. E no, non esiste nessun meccanismo di controllo: tutto sta alla correttezza del proprio supervisore. Se il tuo supervisore vuole far andare avanti qualcun altro e non te, il primo nome te lo puoi scordare, anche se hai fatto tutto il lavoro da solo. Non capita spessissimo, ma capita).

A questo punto il dottorando, ora dottorato, dovrà fare la via crucis del postdottorato. Ovvero, lavorare per vari anni in 2, 3, 4 laboratori, 2-3 anni alla volta, finché non si sia fatto un curriculum abbastanza robusto per il passo successivo. Ma mentre durante il dottorato viene pagato in qualche modo dall’università, dopo il dottorato è spesso necessario (anche se non sempre: ma nei posti più prestigiosi è pratica comune) reperirsi da soli i fondi per pagare il proprio stipendio.

La competizione per tali fondi è spietata, e diventa sempre più spietata man mano che si prosegue. Il motivo è semplice: le agenzie che danno i fondi (in generale si tratta di agenzie internazionali o nazionali di natura governativa, oppure di fondi privati o derivati da donazioni, come Telethon in Italia, o il Wellcome Trust in Inghilterra) di norma non finanziano più del 20% delle application che ricevono, e spesso ne finanziano intorno al 5%. Inoltre fare tali application comporta un’enorme perdita di tempo: non si tratta semplicemente di inviare un curriculum e una lettera, ma di scrivere papiri di 10-40 pagine in cui devi convincere un panel di revisori su ogni aspetto della tua ricerca, in cui devi limare ogni parola perché il tuo progetto sia realistico, brillante, convincente. Insomma, devi fare marketing: ma invece che con uno slogan lo devi fare con dozzine di pagine di pubblicità. Aggiungete che, per avere delle speranze, devi fare domanda a numerose agenzie alla volta, e capite che circa il 40% del tempo di molti ricercatori è speso soltanto a fare domande di fondi. Ovviamente le possibilità di avere fondi dipendono essenzialmente dal proprio curriculum, ovvero dalle pubblicazioni (specie come primo autore).

Tali fondi, qualora vinti, sono a termine (quasi mai durano più di tre anni, spesso due) e quindi praticamente ogni anno uno fa nuove domande per garantirsi i prossimi due anni di stipendio. Ed ecco che qui arriva il nodo: tutte le agenzie di fondi che danno soldi per postdoc pongono dei limiti di età o di esperienza. In pratica, raggiunti i 35 anni avere una borsa per postdoc inizia a diventare impossibile. C’è solo un’alternativa: sperare di trovare una posizione come ricercatore indipendente, diventare in altre parole un giovane “group leader” e iniziare a coordinare il lavoro altrui.


di Massimo Sandal

NASA Prepares For Launch Of Space Shuttle Dsicovery