martedì 8 febbraio 2011

L’ascia del Cancelliere sul welfare britannico

Nicola Melloni, 08 febbraio 2011 (Il Mulino)

Le conseguenze del meltdown finanziario stanno cominciando a farsi sentire anche in Paesi come la Gran Bretagna, dove le ondate speculative che negli ultimi mesi hanno colpito Grecia e Irlanda ancora non hanno prodotto conseguenze significative. D’altronde le elezioni politiche del maggio 2010 si erano giocate proprio sul come gestire il dopo crisi, come affrontare il deficit governativo che era schizzato alle stelle. Per i conservatori le politiche di austerità rappresentavano l’unica soluzione per ripristinare la market confidence, mentre per i liberaldemocratici, membri anche loro del governo di coalizione, il riordino dei conti pubblici sarebbe dovuto avvenire in maniera più graduale. La linea del ministro del Tesoro Osborne sembra però aver prevalso, e il Regno Unito ha intrapreso una serie di politiche economiche dal durissimo impatto sociale. La VAT (la nostra IVA), inizialmente abbassata per favorire i consumi, è stata prima riportata al suo valore iniziale e sarà poi alzata a metà 2011 – una misura fortemente regressiva perché colpisce in maniera disproporzionata le famiglie a reddito più basso, ossia quelle che utilizzano la parte maggiore del proprio reddito in consumo. Il settore pubblico verrà fortemente colpito con il blocco salariale e la pianificata diminuzione di ben 200.000 lavoratori che, nelle speranze del cancelliere, dovrebbero essere assorbiti dal settore privato. Una speranza che purtroppo non si fonda su alcun dato concreto, come conferma la maggioranza degli economisti e come evidenziato da quella che finora è una (timida) jobless recovery. Il deficit, per quanto elevato, non sembra peraltro essere tale da richiedere interventi draconiani, che rischiano piuttosto di minare la crescita. Anzi, in fasi d’incertezza economica, l’intervento pubblico può stimolare la ripresa economica, che renderebbe la dinamica del debito sostenibile nel medio periodo.
Il programma di Cameron e Osborne sembra in realtà un manifesto ideologico in cui la crescita è affidata totalmente alle virtù taumaturgiche del mercato, dimenticando che è stato un fallimento di mercato e non certo dello Stato a scatenare la crisi finanziaria del 2007 e che i conti dello Stato sono al momento deficitari proprio per il gigantesco bail out bancario degli ultimi anni.
In questo contesto la riforma universitaria sembra il punto più discutibile e quello che ha provocato maggiori proteste, almeno per il momento. I finanziamenti pubblici sono stati tagliati del 40%, mentre le tasse universitarie sono state raddoppiate e in alcuni casi triplicate fino a 9.000 pound annui. I giovani che entreranno all’università non dovranno pagare le quote immediatamente, ma potranno ripagare l’ammontare (tra le 40 e le 50.000 sterline alla fine del percorso universitario) nel momento in cui saranno assunti con un salario di almeno 20 mila sterline l’anno – non certo un salario da benestanti. Molti studenti saranno disincentivati dall’iscriversi all’università non avendo vere aspettative di salari alti nel futuro (ricordiamo che il Regno Unito ha la mobilità sociale più bassa d’Europa insieme all’Italia), mentre altri preferiranno emigrare negli Stati Uniti, sfruttando anche il cambio favorevole. Allo stesso tempo anche moltissimi studenti europei, che in questi anni hanno affollato le università inglesi, saranno costretti a rinunciare a studiare oltremanica. In ogni caso ci sarà una perdita secca in termini di qualità degli studenti. Le università migliori riusciranno comunque ad attirare studenti (e quindi denaro) contando sul loro nome e prestigio, mentre le altre rischiano seriamente di chiudere o di venire fortemente ridimensionate. Inoltre, tale riforma sembra dare nuova linfa all’economia del debito, causa principale del collasso finanziario. Le proteste degli studenti sono state durissime, represse peraltro con pugno di ferro dal governo. Il rischio è che le nuove misure di austerity, quando entreranno in vigore, causino ulteriori discontenti e proteste generalizzate.

Marchionne e la flessibilità. Di interpretare i risultati aziendali

Su Linkiesta, l’analista finanziario indipendente Andrew Sentance segnala che Fiat avrebbe pesantemente “bucato” il piano industriale 2006-2010 soprattutto a causa dei marchi Alfa e Lancia:

    «Alfa e Lancia, semplicemente, non stanno vendendo tante auto quante erano state preventivate e annunciate. Nel piano industriale 2006-2010, era previsto che nel 2010 l’Alfa e la Lancia avrebbero venduto entrambe 300.000 auto l’anno. Se ne stanno invece vendendo circa 100.000, esattamente come quattro anni fa. Anche con la migliore forza lavoro al mondo, non si può pensare di far profitti se viene venduto un terzo delle auto che si era prestabilito di vendere. L’altro grosso buco è la Cina, oggi il più grande mercato automobilistico mondiale. Là dove l’azienda dovrebbe star vendendo ormai 300.000 auto, non è neppure presente»

Nulla di male, s’intende. C’è la crisi e i marchi tedeschi si sono mangiati la Cina: non potete pretendere che per simili dettagli un piano industriale venga attualizzato, cioè riscritto o cestinato.

Secondi i calcoli di Sentance, che ricava il grado di leva operativa di Fiat dal piano industriale 2006-2010, il raggiungimento dei target di vendite per Alfa e Lancia avrebbe determinato un maggiore utile operativo di circa 750 milioni, sufficiente a rendere profittevoli gli impianti italiani, oltre ad eccedere i risparmi di costo derivanti dalla riorganizzazione produttiva che Marchionne sta perseguendo nel nostro paese. La morale dell’analisi di Sentance è presto detta: gli impianti italiani sono così drammaticamente lontani dalla saturazione perché impegnati in modelli che non vendono. Data questa premessa,

    «Cambiare le condizioni di lavoro non farà alcuna differenza. Il problema principale non è a livello produttivo, è a livello progettuale, di marketing e delle vendite»

Eppure, a Corso Marconi il compensation committee (la nuova foglia di fico delle maggiori aziende italiane) ha rafforzato i retention bonus. Secondo Sentance, l’esercizio 2009 è stato molto generoso con Marchionne. Lo era stato anche con l’accomandita della famiglia, se non ricordiamo male.

    «L’ultima cosa che amareggia in tutto questo parlare di quanto i lavoratori debbano fare sacrifici è che nel 2009 sia stato pagato a Marchionne un premio di 1,3 milioni di euro sonanti e 500.000 azioni, che si sono andati a sommare a uno stipendio che ammonta a 3 milioni di euro. In un anno in cui l’azienda ha perso 800 milioni di euro e ha avuto un margine operativo del 2,1% invece che del 7%, previsto nel piano 2006. Sarò anche all’antica, ma i premi si danno quando si fanno utili e si raggiungono gli obiettivi che ci si è prefissati, specie se si tratta dell’amministratore delegato. Per aggiungere beffa al danno, il piano dei premi in azioni nel 2010 è stato innalzato da 8 milioni a 12 milioni, di cui 4 milioni sono per tenere in azienda il personale chiave fino a che il bilancio aziendale 2011 non sarà approvato, e 2 milioni vanno a Marchionne»

Risultato mancato, bonus assicurato. E’ la nuova regola aurea dei top manager italiani, industriali e (soprattutto) creditizi. Ma di certo la nostra è tutta invidia. Ricordando le parole di Marchionne stesso, intervistato da Ferruccio De Bortoli al Festival dell’Economia di Trento del 2008:

    «La mia retribuzione è alta perché è commisurata ai risultati. Se non porto risultati, io guadagno zero. Sono cresciuto nel Nord America dove tutti, per definizione, sono precari. Non ho mai avuto e non credo di avere nemmeno adesso un contratto che mi protegga. Io sono il più precario della Fiat»

Pare quindi che i risultati aziendali oggi in Italia siano come le leggi: si applicano per i nemici e si interpretano per gli amici. Ma questa è una banalità assoluta, come ben sa chi abbia mai lavorato in un’azienda o in una banca italiane.