venerdì 4 febbraio 2011

Patrimonio all'italiana

Chi si rivede, la patrimoniale. Il come e perché di un'imposta utile, che può portare come gettito un punto di Pil. Purché non sia una mossa disperata e straordinaria – come pare da certe proposte –, e si regga su tre pilastri stabili: il patrimonio finanziario, gli immobili, i gruppi d'impresa 
Le recenti discussioni relative all’introduzione di una patrimoniale portano con loro due rischi. Il primo è quello di prendere lucciole per lanterne, ossia di far credere che sia possibile, attraverso uno strumento fiscale, "far piangere i ricchi”. La diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze deriva in misura prevalente dal modo in cui il valore generato nei processi produttivi viene distribuito tra i diversi fattori (disomogenei non solo per tipologia, capitale e lavoro, ma anche per gradi di flessibilità e per allocazione geografica). La diseguaglianza nei redditi e nelle ricchezze al netto delle imposte è, quindi, solo secondaria, perché le possibilità di redistribuzione per via fiscale sono ridotte per ragioni sia tecniche sia politiche. Ai politici piace parlare di fisco, facendo credere di poter attuare chissà quali cambiamenti, ma si tratta, appunto, di illusioni.Il secondo rischio è, invece, quello di perdere un’opportunità. Le proposte di tassazione patrimoniale che vengono portate avanti in modo più o meno sistematico (Amato, Capaldo, Veltroni) hanno un carattere straordinario in quanto legato a un’esigenza specifica, ovvero la riduzione dello stock di debito pubblico. Tralasciando la discussione sull’opportunità e sull’eventuale entità di questa finalizzazione, il problema sta proprio nella straordinarietà dell’imposta. Le imposte straordinarie sono sempre difficili da gestire, perché richiedono tempi brevi e basi imponibili poco mobili. Ne segue che un’imposta straordinaria potrebbe configurarsi solo sul patrimonio immobiliare e non su quello finanziario, che altrimenti potrebbe facilmente essere nascosto o allocato altrove per il breve periodo in cui si applica l’imposta. Il gettito ottenibile in questo modo difficilmente potrebbe essere sufficiente a raggiungere gli obiettivi di abbattimento del debito dichiarati. Da qui il passo ad un’imposta straordinaria sui “redditi alti” è breve, ed è nefasto, perché i redditi alti sono comunque redditi da lavoro, posto che il reddito da capitale è in buona parte fuori dall’Irpef. Si finirebbe probabilmente vicino ad una riedizione, magari con qualche accorgimento, della tassa sull’Europa del 1997.
Ovviamente, non tutto il male viene per nuocere. È tempo che una discussione pacata (posto che non si fanno le rivoluzioni per via fiscale) ma non pre-determinata sull’imposizione patrimoniale si apra nel nostro Paese. Partendo da due dati di fatto. Il primo è che, secondo recenti stime del Fondo monetario internazionale, se l’Italia introducesse un’imposta patrimoniale in grado di produrre un gettito di livello medio rispetto a quello di imposte simili in Canada, Usa e Regno Unito, si potrebbe guadagnare un punto di Pil in termini di gettito. Il dato serve soprattutto ad illustrare il fatto che l’Italia ha livelli di imposizione patrimoniale bassi, ancor più dopo la cancellazione dell’Ici. Il secondo elemento da tenere presente in questo periodo post-crisi e di scarsa crescita (almeno per l’Italia), è che proprio la tassazione sugli immobili è considerata dall’Ocse come quella preferibile da adottare quando è necessario reperire risorse cercando di favorire nel contempo la crescita economica.
Occorre quindi abbandonare una prospettiva di carattere straordinario e riflettere invece su una manovra strutturale di ricomposizione interna al comparto delle imposte dirette, con un maggior peso per le imposte patrimoniali ed una minore importanza per le imposte personali e societarie sul reddito. Le imposte patrimoniali offrono diversi vantaggi teorici e pratici rispetto a quelle sul reddito, tra cui il fatto che consentono di stabilizzare il gettito, rendendolo meno variabile al variare del ciclo economico e riducendo quindi il rischio per le finanze pubbliche. Inoltre, la distribuzione del patrimonio è normalmente più sperequata rispetto a quella delle basi imponibili delle imposte personali, e quindi una ricomposizione del prelievo di questo tipo potrebbe aumentare la progressività complessiva del sistema. Non ci si deve nascondere, tuttavia, che anche per le imposte patrimoniali c’è il problema dell’accertamento della base imponibile, che è più semplice, rispetto all’accertamento del reddito, solo per i beni immobili, mentre è particolarmente complessa per i patrimoni finanziari. È qui che dovrebbe intervenire un sistema europeo integrato di anagrafe dei flussi patrimoniali, ed è qui che il problema della tassazione si lega a quello, più generale e complesso, della regolamentazione dei flussi di capitale, all’interno e all’esterno dell’Europa. Non si tratta di problemi semplici. Per questa ragione, sarebbe preferibile pensare ad una strategia in più fasi.
In primo luogo, si potrebbe immaginare di cambiare il sistema di tassazione dei redditi finanziari. L'assetto esistente, basato sull’idea di tassare i redditi da attività finanziarie, è contrario a qualsiasi principio di neutralità (visto che diverse forme di reddito da attività finanziarie sono tassate con aliquote diverse) e di equità (visto che, al di là della differenziazione tra plusvalenze e dividendi da qualificate, le aliquote si collocano nella curva bassa dell'Irpef). Muoversi verso un sistema del tutto neutrale – dopo le esperienze degli ultimi anni – appare sostanzialmente impossibile. A questo punto, perché non pensare ad una soluzione all'olandese, dove al patrimonio finanziario (al netto delle partecipazioni qualificate e di quelle nei paesi a fiscalità privilegiata) si applica un'aliquota sul rendimento presunto, e quindi, sostanzialmente, si tassa il patrimonio? Avrebbe i tipici vantaggi einaudiani di un'imposizione normale e quello, non indifferente, di stabilizzare il gettito. Certo, avrebbe il difetto di essere pro ciclica, ma buona parte della letteratura trova valori piuttosto bassi dell'elasticità alle imposte del risparmio.
In secondo luogo, l’Ici va assolutamente ripristinata dopo aver rivisto i valori catastali sulla base di dati realistici di valore che sono già disponibili all’Amministrazione finanziaria con un buon livello di dettaglio, quantomeno per le grandi città (basti guardare ai dati dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare disponibili su Internet). L’abrogazione dell’Ici sulla prima casa (purtroppo richiesta anche da forze di sinistra nel recente passato) è stata un errore che diventa oggi ancor più evidente nel contesto di attuazione della riforma federalista.
Infine, il passaggio dal reddito al patrimonio (ovvero ad una tassazione del reddito presunto sulla base della consistenza patrimoniale) potrebbe essere adottato per i gruppi di impresa e per le imprese singole dotate di una minima consistenza patrimoniale, cercando di evitare i fenomeni di “imprese in perdita ripetuta” noti da anni ed oggetto di diversi infruttuosi tentativi di revisione.
Come si vede, ci sono diversi terreni di discussione di un qualche interesse se si riesce a sgombrare il campo da proposte rozze o comunque destinate a scopi discutibili. 

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Lavoro e Libertà



ASSOCIAZIONE
LAVORO E LIBERTA’





TEATRO DELLA CORTE

GIOVEDI’ 10 FEBBRAIO 2011
ORE 17.00


LAVORO E/O VITA?
Il caso della Thyssen Krupp un monito per tutti



Ne discutono:

Fausto Bertinotti
Sergio Cofferati
Pippo Delbono
Maurizio Landini
Gad Lerner




INGRESSO LIBERO

Regno Unito: le ricette sbagliate


I tagli draconiani al settore pubblico e l’aumento delle tasse in senso antiprogressivo del governo di coalizione caratterizzano un capitalismo sempre meno inclusivo

Mentre l’Europa continentale teme il riaccendersi del panico finanziario causato dall’esplosione del debito pubblico, il Regno Unito ha fatto riscontrare una crescita economica negativa (-0,5%) nell’ultimo trimestre del 2010. Il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha incolpato il maltempo per questo risultato che non era atteso: il freddo e la neve di dicembre hanno bloccato per diversi giorni la Gran Bretagna, con un influsso negativo specialmente sul settore delle costruzioni (-3.3%) che era stato, insieme a quello finanziario, il motore della crescita inglese durante gli anni del New Labour.
Certo, la neve non ha aiutato, diminuendo lo shopping natalizio, cancellando voli e treni e bloccando, appunto, i lavori in corso. Ma la spiegazione di Osborne è sbrigativa e non tocca il cuore del problema. D’altronde anche nel trimestre precedente la crescita è stata zero e, dal momento delle elezioni che hanno portato un Tory a Downing Street dopo 13 anni, l’economia è cresciuta solamente dello 0,3%. I problemi sono dunque più strutturali di quelli descritti dal governo. Il programma elettorale dei Conservatori, nella scorsa primavera, era piuttosto chiaro e si concentrava sulla diminuzione drastica del deficit nei prossimi anni, per reinstaurare la cosiddetta market confidence ed evitare attacchi speculativi che potrebbero destabilizzare l’economia inglese. La politica economica adottata da Cameron e Osborne è stata dunque molto simile alla shock therapy ripresa poi dai governi di Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo, sulla falsariga delle ricette economiche fallimentari imposte in Asia e in Sud America dal Fondo Monetario Internazionale nello scorso decennio. Il governo ha pianificato tagli drastici al settore pubblico e aumento delle tasse, una politica fortemente restrittiva per ridurre il buco di bilancio ma, ovviamente, tale stretta fiscale ha un impatto sulla crescita. Il settore delle costruzioni è stato il primo a essere colpito: mentre il governo Brown aveva cercato di riattivarlo dopo il crollo del 2008-09 con commesse statali, il nuovo governo di coalizione ha cancellato diversi contratti di costruzione, come quello per l’edilizia scolastica, il che spiega in maniera più convincente il forte calo registrato dal settore negli ultimi mesi. La maggior parte degli altri tagli non è ancora entrata in vigore ma le aspettative negative dei cittadini britannici hanno portato questi ultimi ad anticipare la riduzione del consumo privato già agli ultimi 6 mesi del 2010. Ora, con il nuovo anno, la situazione è destinata a peggiorare. La VAT (la nostra IVA) è stata portata dal gennaio 2011 dal 17.5 al 20%, un incremento che con tutta evidenza colpirà i ceti più deboli (il decile più povero della popolazione perderà oltre il 2% del reddito netto contro meno dell’1% per il decile più ricco). Nel settore pubblico oltre 90.000 lavoratori perderanno il posto, primo amaro assaggio di un piano che prevede la riduzione degli addetti nel settore di quasi 500 mila unità tra quest’anno e il 2015. Nel 2012, infine, entrerà in vigore anche la famigerata riforma universitaria che triplica le rette per gli studenti portandole fino a 9.000 sterline annue mentre le risorse pubbliche destinate all’istruzione superiore vengono tagliate del 40%.

Il tutto sembra coerente con l’impostazione dottrinaria della Big Society che Cameron è andato a riscovare in campagna elettorale, meno stato e più mercato, come se la preponderanza del mercato non fosse stata in primo luogo la causa del crollo finanziario. Il problema vero, che Cameron e Osborne non sembrano cogliere, è dato però dalla congiuntura economica. Il Regno Unito è stato colpito molto duramente dal meltdown finanziario, con il PIL calato complessivamente del 5.9% e l’economia in recessione per sei trimestri consecutivi tra il 2008 e il 2009. Il boom del decennio precedente è stato fondamentalmente legato a due bolle, quella finanziaria e quella immobiliare favorite dall’emergere della City come hub mondiale dei servizi finanziari e dall’enorme crescita di liquidità degli istituti finanziari inglesi. Ora l’economia britannica si trova in una posizione di estrema debolezza: l’industria ha ripreso a girare, grazie anche ai livelli bassissimi del tasso d’interesse, e infatti i dati dell’ultimo trimestre sono positivi (+1.4%), ma il peso specifico del manifatturiero nella composizione del PIL britannico è assai modesto (13% - “Grazie, Signora Thatcher”!) mentre il settore finanziario, nonostante il consistente rialzo dell’ultimo anno, è ancora lontano dall’aver superato la crisi, come dimostrato dalle difficoltà di un grande istituto come Barclays Capital che per il sesto trimestre consecutivo ha registrato un calo dei ricavi – con conseguente licenziamento del 10% degli addetti.

In una situazione di ripresa così instabile, i tagli draconiani del governo di coalizione non hanno alcun senso economico se non quello di una crociata ideologica. Cameron ha sostenuto che i tagli e le dismissioni nel settore pubblico libereranno risorse per il settore privato e il risultato netto sarà positivo ma non è riuscito a dare nessuna spiegazione razionale del perché un settore privato malmesso dovrebbe aumentare gli investimenti e le assunzioni proprio quando il costo della vita è in aumento (a causa dell’aumento del VAT e della svalutazione della sterlina), la disoccupazione stagnante e in probabile crescita grazie ai licenziamenti pubblici e dunque le aspettative di consumo in calo. Nonostante l’accresciuto deficit dello stato, la dinamica del debito pubblico non era assolutamente paragonabile a quella di molti altri paesi, inclusa l’Italia, ovviamente, né c’erano segnali che la speculazione globale si stesse preparando ad attaccare la sterlina. Un approccio meno ideologico avrebbe potuto semplicemente continuare a stimolare la crescita economica, riducendo il debito in maniera graduale grazie alle accresciute entrate fiscali. In realtà il governo di coalizione sembra voler sfruttare la window of opportunity della crisi per riscrivere l’intero contratto sociale, per arrivare dove neanche due decenni di thatcherismo e un decennio abbondante di blairismo avevano osato. Lo smantellamento dei servizi pubblici locali, dell’istruzione, la carta bianca data al mercato, il tentativo di ripristinare l’economia del debito privato (illuminante in questo senso la riforma universitaria che impone agli studenti un indebitamento nell’ordine delle 40-50 mila sterline complessive) sono tutti segnali che sembrano prefigurare un capitalismo sempre meno inclusivo, sempre meno democratico. Allo stesso tempo sembra però anche condannare alla marginalità il Regno Unito, costretto a subire i furori ideologici di una pattuglia di neo-liberali che si accaniscono a rianimare il corpo ormai esanime di un modello economico fallimentare.

Nicola Melloni
www.sbilanciamoci.info