lunedì 30 maggio 2011

CARTOLINA DA SAN PEDRO SULA, HONDURAS
di Monica Bedana


Sono reduce da un viaggio in Honduras, ma non quello delle spiagge vacanziere. Ho conosciuto quello del 65% di poveri su circa 8 milioni di abitanti; quello col 28% di disoccupazione, il quarto paese più povero di tutta l'America Latina; quello la cui ricchezza totale si concentra nelle mani di dieci o dodici famiglie. E dire che il dipartimento di Cortés, dove si trova San Pedro Sula, una delle città più grandi del Paese, è il più industrializzato; ciò non mi ha impedito di vedere come sopravvive malamente la gente in città e come patisce severamente anche solo un villaggio più in là.

L'Honduras è di attualità in questi giorni per il ritorno al potere del presidente Zelaya, buttato fuori in pigiama dal suo letto e dal Paese due anni fa con un colpo di Stato di matrice militare ma appoggiato da tutte le Istituzioni del Paese, che consideravano illegale il referendum che Zelaya stava preparando per mantenersi nel potere più a lungo di quanto consentisse il verdetto delle urne.
Oggi torna in Honduras dopo una lunga trattativa tra il Presidente in carica, Porfirio Lobo -eletto in questi due anni- i Ministri degli Esteri di Venezuela e Colombia ed il segretario generale della OEA, l'organizzazione degli Stati Americani da cui l'Honduras fu espulso proprio per l'incostituzionalità del referendum voluto da Zelaya. E torna con l'approvazione della comunità internazionale, Stati Uniti compresi.

“Zelaya torna per mettersi a capo della Sinistra”, questo il titolo più ricorrente sui giornali in questi gioeni. Una Sinistra strana, in cui spicca sempre la figura di Hugo Chávez, il fondatore di ALBA, quell' Alternativa Bolivariana para las Américas che sotto l'influsso di Fidel Castro e con la collaborazione degli autoctoni boliviani e del Nicaragua sandinista, aspira a contrastare i trattati di libero commercio per l'America Latina promossi dagli Stati Uniti, come ALCA e TLC.
Oltre ad ALBA, Zelaya aderí anche a Petrocaribe, il trattato con cui il Venezuela esporta petrolio a prezzi stracciati ad alcuni paesi del Caribe; se ne potrebbe elogiare lo spirito caritativo se non fosse perché, a cambio del petrolio, Chávez a suo tempo pretese da Zelaya che le FARC fossero depennate dalla lista dei gruppi considerati terroristi in Honduras. Una richiesta come un'altra.

Questo ritorno riserverà senz'altro molte altre sorprese. I trattati con il Venezuela furono sospesi nei due anni di governo di Micheletti e Lobo e Chávez pretenderà di tornare a calcare le scene come gli si addice; al tempo stesso però Zelaya ha già chiesto che l'Honduras sia riammesso in quell'OEA un tempo da lui disprezzata. Oltre un milione di cittadini dell'Honduras vive negli Stati Uniti e sono le loro rimesse verso il Paese a dare una mano sostanziale a tanta gente che muore di fame; una mano che non può più essere morsa.
Nel frattempo il narcotraffico messicano dilaga nel Paese attraverso il corridoio di Copán (il cartel di Sinaloa opera indisturbato grazie alla voluta miopia -a volte aperta collaborazione- della polizia; le guerre per il controllo del territorio sono sanguinosissime) e l'estrema insicurezza si aggiunge beffardamente all'estrema povertà.

A San Pedro Sula è impossibile muoversi a piedi, anche solo per brevissimi tratti (soprattutto per chi ha un aspetto decisamente gringo come il mio) e se lo si fa in macchina nessuno ci garantisce di arrivare sani e salvi a destinazione, perchéti ripetono continuamente che è sempre raccomandabile contrattare guardie del corpo ben armate per qualsiasi spostamento.
In alcuni locali sulla porta è appeso un cartello che dice “Per la sua sicurezza la preghiamo di entrare disarmato”; e uno rimane di ghiaccio nonostante i 43º di temperatura, quando vede che a farti accomodare è un tipo armato di machete.

sabato 28 maggio 2011

Se fallisce la Grecia a pagare non sarà Atene ma l'Europa



Il fallimento del piano di salvataggio della Grecia è ormai sotto gli occhi di tutti. Eravamo stati facili profeti quando dicevamo che l'austerity ed i tagli non avrebbero salvato Atene e che i problemi si sarebbero solamente ripresentati poco tempo dopo, in forma ancor più grave. Ora anche il commissario europeo greco Maria Damanaki parla apertamente della possibile uscita del suo paese dall'euro. Ed i mercati internazionali danno per scontato il default greco, richiedendo tassi di interesse che ormai hanno toccato il 25% sul debito pubblico a due anni. L'Europa si trova davanti al dilemma su cosa fare. Soprattutto in Germania l'opinione pubblica sembra decisamente contraria a fornire ulteriori aiuti all'economia greca. Si tratta però di una idea distorta di quello che sta succedendo. I soldi tedeschi dati alla Grecia non servono per salvare i lavoratori greci o a far riprendere l'economia ellenica, ma per impedire l'insolvibilità dello Stato greco, il cui debito è detenuto dalle grandi banche europee, soprattutto tedesche. Si tratta, a onor del vero, di uno schema già visto in passato. Gli interventi del Fmi negli anni 90, in Messico, Asia e Russia erano soprattutto mirati ad evitare che le crisi finanziarie dei paesi in via di sviluppo si trasformassero in crisi bancarie in Occidente, con gli istituti finanziari sovraesposti nei mercati emergenti. Ora lo schema si sta ripetendo in Grecia, per salvare le banche tedesche ed europee.
Si tratta dunque in realtà di un altro bail-out, come già nel 2007-2008. Per i governi europei è assolutamente impensabile lasciar fallire le grandi banche, e con buone ragioni. Abbiamo visto cosa è successo sui mercati internazionali per il fallimento di Lehman Brothers e la recessione globale che ne è seguita. Ora l'Europa si trova in una situazione fondamentalmente identica - non possiamo permettere il fallimento greco perchè non abbiamo la minima idea di cosa potrebbe succedere alle nostre banche e queli sarebbero le conseguenze per gli altri paesi europei in difficoltà ed infine per l'intera area euro.
Il punto non è semplicemente che i governi europei sono in mano ad una oligarchia finanzaria, anche se sicuramente i banchieri hanno un peso politico assolutamente sproporzionato. La questione vera è che la finanza così come si è andata trasformando negli ultimi 30 anni tiene in mano l'intero sistema economico occidentale. Il fallimento bancario vuol dire mettere a rischio i conti correnti dei cittadini, bloccare la produzione, e di conseguenza licenziamenti e recessione. I liberisti classici chiedono ora che si lasci fallire la Grecia, ed anche le banche, perchè solo attraverso il fallimento il mercato corregge i suoi errori - anzi è proprio l'intervento pubblico di salvataggio a rendere le cose più complicate. Cose simili si dicevano prima di lasciar fallire Lehman, cose simili fece il Presidente americano Hoover nel 1929. La realtà però è che le crisi economiche non si risolvono semplicemente attraverso il fallimento e la "distruzione creativa" di Schumpeteriana memoria. La "distruzione creativa" si applica alle economie capitaliste in fase espansiva, ma le crisi hanno una dinamica diversa, si avvitano su sè stesse, diminuisce la liquidità e la volontà di investire, le imprese chiudono e licenziano i consumi si abbassano disincentivando ulteriormente la produzione. Dal punto di vista politico, inoltre, la crisi, come sappiamo, ha dei costi intollerabili. Paradossalmente per la Grecia il fallimento potrebbe essere una svolta positiva (nel medio periodo), ma le conseguenze per il resto dell'Europa sarebbe fatali.
Bisogna dunque capire le ragioni profonde di questa crisi che vanno cercate nella struttura istituzionale del capitalismo neo-liberale. E' necessario innanzitutto intervenire sulle banche ed evitare che siano troppo grandi per fallire e mettano sotto ricatto politica ed economia - una riforma che era in cima all'agenda post-crisi ma che è stata invece presto accantonata. Gli interventi dei governi occidentali non hanno risolto la crisi ma solo trasferito il debito dal settore privato a quello pubblico, il cui fallimento però si ripercuoterebbe nuovamente sul mercato bancario e da quello sull'intera popolazione. Sostenere che basti la mano invisibile del mercato a rimettere a posto le cose significa non vedere le conseguenze generali del default. I governi occidentali, da Obama a quelli europei, si sono fino ad ora impegnati solamente nel salvataggio delle banche, cercando di rimettere a posto un meccanismo di crescita che si credeva soltanto inceppato. La vera questione, invece, è cambiare radicalmente un sistema che non può essere più aggiustato.

di Nicola Melloni
su Liberazione del 27/05/2011




giovedì 26 maggio 2011

Aspettando il secondo turno delle elezioni


L’esito del primo turno delle elezioni amministrative in Italia ha generato un diffuso entusiasmo tra quei cittadini che non approvano le politiche ed i metodi della coalizione che governa il Paese. La posizione di vantaggio ottenuta dal candidato Giuliano Pisapia a Milano é stata festeggiata da migliaia di cittadini milanesi e non solo e questo exploit unito a quello di Luigi De Magistris a Napoli ha portato molti esponenti della Sinistra a prospettare la fine del modello culturale berlusconiano; infine, il buon risultato delle liste afferenti al Movimento 5 Stelle ha spinto molti ad azzardare una “primavera” italiana, sul modello dei cambiamenti occorsi in Egitto e Tunisia.
Complessivamente, si tratta di un risultato che, se confermato al secondo turno e se rafforzato dall’elezione a sindaco di Pisapia e di De Magistris, indurrà a pensare che la Destra abbia finalmente intrapreso una china discendente in termini di consenso e che una coalizione ancora forte alle elezioni regionali dello scorso anno, oggi si stia sfaldando. Dal mio punto di vista, peró, mi pongo la domanda se il risultato del primo turno delle elezioni amministrative possa davvero esser intravisto come un punto di svolta rispetto all’Italia che abbiamo conosciuto sino ad ora e non semplicemente come un’espressione di quel modello dell’alternanza che dal 1993 ad oggi si é cercato di imporre al parlamentarismo pluri-partitico italiano. Prescindendo dal fatto che l’esito finale per le due principali città chiamate al voto sia lungi dall’esser scontato e che per 6 delle 11 province l’elezione del presidente averà al ballottaggio del prossimo fine settimana, va osservato che durante questi diciassette anni di “seconda” repubblica abbiamo assistito a tre fasi di “rinascita” della Sinistra, a tre primavere. La più significativa fu quella del periodo 2004/2005 in cui, tra l’altro, la Provincia di Milano fu aggiudicata alla coalizione di CentroSinistra guidata da Filippo Penati: al primo turno Penati ottenne un vantaggio di 5 punti percentuali (43% contro 38%) ed al secondo superó il 50% dei voti. La fase positiva per le forze progressiste apertasi con le elezioni amministrative di quell’anno fu rafforzata dall’esito delle consultazioni regionali dell’anno successivo, quando fu allargato il numero di giunte di CentroSinistra ed anche nel Nord, in Piemonte, fu eletto un Presidente di Regione di area  progressista.
Il dibattito pubblico negli ultimi quindici anni è stato dominato da temi quali il controllo del’immigrazione, la repressione della micro-criminalitá, la deregolamentazione dei rapporti di lavoro, la libertà di impresa; si tratta di questioni che evidenziano un’egemonia culturale, o per lo meno una predominanza, delle forze conservatrici e liberiste del Paese. Egemonia che si riflette anche nelle forme della politica: l’impiego massiccio dell’immagine nella comunicazione, la sostituzione dei fatti con le narrazioni ed la tendenza al leaderismo. Ciò che chiedo a coloro che individuano nel risultato elettorale un segno di cambiamento è se notino anche un mutamento nella mentalità degli italiani e nel loro approccio alla cosa pubblica. In quale misura il rilevante risultato elettorale raccolto dalle liste 5 Stelle possa esser letto come un desiderio di discontinuità con gli ultimi due decenni, nel momento in cui lo slogan “sono tutti uguali” richiama quelli con cui la Lega Nord e Forza Italia raccolsero consensi dopo la stagione di Mani Pulite. Quale ventata di cambiamento porta con sé l’elezione di Fassino a sindaco di Torino, in chiara continuità con quel Chiamparino che si vanta di aver un rapporto di confidenza con Marchionne e che dispensa perle di saggezza agli operai sotto ricatto? Come rallegrarci di una vittoria di misura del CentroSinistra in quella Bologna che per decenni fu una roccaforte rossa ed un laboratorio della buona amministrazione?
Dalla straripante vittoria della Casa delle Libertá nel 2001 i partiti progressisti hanno focalizzato il proprio operato evidenziando il marcio e la carica eversiva del berlusconismo e della Destra italiana, ma allo stesso tempo hanno modellato la propria proposta sociale ed economica su quella dell’avversario politico. Non c’è stata l’elaborazione di un modello alternativo, che ponesse il cittadino al centro dell’azione politica, anziché il denaro; tutt’al più ci si è limitati a proporre forme di solidarietà e di assistenzialismo per smorzare gli effetti del turbo-capitalismo. Anche allo scoppio della crisi finanziaria ed economica, non si è osato metter in discussione un sistema che dagli anni 1980 ad oggi ha causato il progressivo impoverimento della popolazione, il degrado ambientale e l’erosione degli spazi di democrazia. Come si può quindi pensare che il “vento sia cambiato”? Quale rivoluzione culturale è stata messa in atto per riaffermare l’egemonia dei principi e dei valori costituzionali? Ben venga l’elezione di Pisapia, di De Magistris e degli altri candidati di CentroSinistra, ma essa sia il punto di partenza per un’operazione di ribaltamento del discorso pubblico, di costruzione di una società. I dirigenti di partito imparino dagli errori del passato e non si accontentino del mero risultato elettorale.
Simone Rossi



lunedì 23 maggio 2011

L’incerto futuro italiano


Brutte notizie dai mercati finanziari: Standar&Poor’s ha confermato il rating di A+ del debito italiano ma ha modificato l’outlook da stabile a negativo, segnalando l’inquietudine che circola sui mercati riguardo la salute dell’economia italiana.
Usciamo subito dall’equivoco che riguarda il sistema di rating. Certo il giudizio di S&P’s, così come delle altre agenzie, è un giudizio non solo economico ma anche politico – non è un caso che il giudizio negativo sul debito USA sia arrivato in concomitanza con lo stallo parlamentare sul piano di rientro dal debito e la previsione negativa sull’Italia venga data dopo le elezioni amminsitrative ed in un periodo di affanno del governo, mentre nubi sempre più scure si addensano sull’intera area dell’Euro. D’altronde l’economia, lo sappiamo, non è una entità separata dalla politica. Sicuramente le agenzie di rating non sono un oracolo, una voce obiettiva al di sopra delle parti ma sono anzi parte integrante di un sistema finanziario inefficiente, incontrollabile ed, in questo caso, con un gigantesco problema di conflitto d’interessi. D’altro canto, però, non si può festeggiare il giudizio delle agenzie quando è positivo e rigettarlo quando invece è negativo. E, soprattutto, tale giudizio ha un impatto sull’andamento dei mercati finanziari, a torto o ragione che sia.
In questo caso specifico poi, S&P’segnala, con ritardo, un problema evidente. L’Italia non cresce, il PIL resta al palo ed è questo che le agenzie di rating considerano preoccupante. In questi anni Tremonti si era vantato di aver salvato l’Italia dalla crisi internazionale, con una recessione ridotta rispetto ad altri paesi europei e con conti economici meno disastrosi che altrove. La verità, però, è assai più complessa e meno rosea di quella descritta dal Ministro dell’Economia. L’Italia ha sofferto (relativamente!) meno di paesi come Grecia, Portogallo, Spagna o anche Gran Bretagna perchè la nostra economia era molto meno dipendente dai settori maggiormente colpiti dalla crisi, quello finanziario e quello edilizio che avevano contribuito in larga parte al boom di Londra e Madrid, o Washington. Dunque, la tenuta dell’economia è stata in larga parte dovuta a motivi strutturali che poco hanno a che fare con le politiche del governo.
Quanto alla tenuta dei conti pubblici, i tagli lineari di Tremonti hanno diminuito la spesa corrente del governo, in tal maniera evitando un ulteriore aumento dello stock di debito – il rapporto debito/Pil è inizialmente cresciuto per poi diminuire negli ultimi due anni. Il problema è che queste politiche economiche hanno un effetto positivo (e solamente a livello di conti pubblici!) nel brevissimo periodo, ma sono foriere di problemi ben più grandi di quelli che cercano di nascondere. Colpendo indiscriminatamente tutti i settori, quelli produttivi e quelli improduttivi, i tagli lineari mettono in salvo i conti in un dato momento, ma non effettuano scelte di politica economica, non danno una prospettiva di sviluppo al paese ed anzi minano le possibilità di crescita future. Inoltre colpiscono in maniera disproporzionata i ceti più deboli – come ovvio i tagli ai servizi dello stato riguardano maggiormente la fascia di popolazione più povera – riducendone così ulteriomente la capacità di consumo e, di conseguenza, diminuendo la domanda aggregata (i poveri consumano una parte di reddito disponibile assai maggiore di quella dei ricchi). Detto in breve, le politiche tremontiane rimandano solo l’ora di fare i conti con la crisi.
Intendiamoci, non è solo Tremonti ad essere responsabile di questa situazione. L’Italia viene da due decenni di stagnazione in cui i governi si sono occupati solo dei conti macroeconomici rinunciando a qualsiasi politica industriale, sperando che fosse il mercato a sopperire a tale mancanza. Speranza poi risultata vana. A cominciare dai gabinetti presieduti da Amato e Ciampi si è dato la precedenza alla riduzione del debito – si era nel periodo della crisi dello SME – cosa poi ripetuta dal primo governo Prodi per cercare di entrare nell’Euro. L’effetto netto, però, è stato l’affossamento dell’economia reale. L’Unione monetaria europea è nata seguendo sostanzialmente la stessa filosofia monetarista, concentrandosi su inflazione e debito e non occupandosi della crescita. Ed anche altrove in Europa, la risposta all’attuale crisi è stata all’insegna dei tagli che avrebbero dovuto rassicurare gli investitori sulla solvibilità del governo. L’avvitarsi della crisi greca, il secondo bail-out in pochi mesi dell’Irlanda, il dramma portoghese e, da ultimo, il giudizio negativo sull’economia italiana ci parlano però di una situazione assai diversa, in cui i tagli non solo non bastano ma anzi acuiscono i problemi. Di fronte a tale fallimento è arrivata dunque l’ora di aprire una seria riflessione sull’intero sistema economico, italiano ed europeo, lanciando una nuova proposta politica ed economica per il superamento della crisi.

Nicola Melloni (Liberazione) 

RESISTENZA INTERNAZIONALE: RESISTENZA INTERNAZIONALE: IL RISVEGLIO DELLA SINI...

RESISTENZA INTERNAZIONALE: RESISTENZA INTERNAZIONALE: IL RISVEGLIO DELLA SINI...: "RESISTENZA INTERNAZIONALE: IL RISVEGLIO DELLA SINISTRA : 'Un risultato sconvolgente ed entusiasmante. Certo si tratta del primo turno e ..."

RESISTENZA INTERNAZIONALE: e adesso i referendum

RESISTENZA INTERNAZIONALE: e adesso i referendum: "Dopo il voto per i Comuni, quello per i beni comuni. Entra nel vivo la campagna “per cambiare”, lanciata da sbilinfo insieme ad altri sit..."

Europa, ultimo appello


La crisi greca diventa ingestibile, né può servire la "ricetta Mirafiori" delle istituzioni internazionali. L'uscita di scena di DSK cambia poco: è vero che l'ex direttore del Fmi ha aperto sui controlli ai movimenti di capitale, ma le ricette macro non sono cambiate
Il peggiorare della crisi greca sembra porre una seria minaccia non solo per la penisola ellenica ma per l’Europa tutta. Sono sempre più gli economisti e i commentatori che discutono apertamente la possibilità che Atene ristrutturi il debito o addirittura abbandoni l’Unione monetaria.La situazione economica greca sembra ormai deteriorata. Il piano di rilancio varato lo scorso anno da Unione europea e Fmi non ha avuto gli effetti sperati e i mercati richiedono un premium sempre più consistente per acquistare titoli di stato, con interessi che sono ormai al 16%, il che rende ancora più catastrofica la dinamica debito/Pil con un rapporto che sfiora il 160%. Non ci sono dubbi che l’economia greca soffra di carenze strutturali che la crisi finanziaria internazionale ha fatto emergere ma la linea adottata da Bruxelles e Washington è stata completamente deficitaria, in linea con l’approccio che il Fondo ha utilizzato per fronteggiare le innumerevoli crisi degli anni ‘90. Su molta stampa cosiddetta progressista, soprattutto negli ultimi giorni, si è spiegato che invece, sotto la presidenza appena terminata di Strauss Kahn, il Fondo monetario abbia recepito gli errori del passato e il sistema di prestiti e salvataggi sponsorizzati dall’Fmi sia drasticamente differente da quello del passato. In particolare si sottolinea come il “socialista” Dominique Strauss Kahn abbia puntato sul controllo ai movimenti di capitale per diminuire l’impatto degli attacchi speculativi. Questo è sostanzialmente vero, anche se una riflessione sull’archittetura finanziaria globale, incluso il ruolo della liberalizzazione dei movimenti di capitali, si era già aperta una decina di anni fa sotto la presidenza di Horst Kohler e anche economisti radicalmente neo-liberali come Anne Kreuger avevano suggerito di rivedere alcuni dei paradigmi della globalizzazione come era stata concepita negli anni ‘90.
Certo il tentativo di ridurre l’eccessiva mobilità del capitale speculativo è un passo nella giusta direzione, ma il problema nell’approccio di Fmi e Ue risiede nel tipo di politiche economiche proposte per far uscire la Grecia dalla crisi che non è sostanzialmente cambiato sotto la presidenza di Strauss Kahn. Politiche economiche restrittive, tutt’altro che socialiste, l’opposto di quello che Usa e Regno Unito hanno fatto nel 2007-2010 e che ripropongono il solito paradigma monetarista: rimettere a posto i conti il prima possibile per rassicurare i mercati. E dunque tagli consistenti alla spesa, licenzimenti di massa, riduzione dei salari, sperando di convincere in tale maniera gli imprenditori privati a investire di più, risollevando l’economia. Si tratta in realtà di semplice wishful thinking, non esiste nessun collegamento diretto tra riduzione del ruolo del settore pubblico e stimoli al settore privato, come dimostra la assai incerta ripresa economica dell’economia inglese sotto il governo conservatore del duo Cameron-Osborne.
La situazione all’intero dell'euro-zona è però ancora più complessa a causa della struttura istituzionale europea. L’adesione all’euro impedisce qualsiasi flessibilità nelle risposte da dare alla crisi. La Grecia, ma anche il Portogallo, la Spagna e l’Italia soffrono di seri problemi di competitività ed è intevenendo su questo problema che si può tentare di rilanciare l’economia. Dal momento dell’entrata in vigore della moneta unica sono state proprio le economie dei "PIGS" e dell’Italia a perdere competitività, con un costo del lavoro unitario salito in media tra il 12 e il 22% nell’ultimo decennio, a fronte di una riduzione dello stesso in Germania.
Il problema è che in un sistema di cambi fissi, come effettivamente è l’euro, queste economie non possono giocare la carta più semplice, quella della svalutazione, mentre, ad esempio, la Gran Bretagna, che ancora mantiene una sua valuta e una politica monetaria indipendente ha lasciato che la sterlina si svalutasse di circa il 25% contro l’euro dall’inizio della crisi, rilanciando in questa maniera la competitività dell’industria inglese. Di conseguenza Grecia e Portogallo (e Spagna, in parte) sono condannate a “rilanciare” le proprie economie mediante l’auto-induzione di politiche recessive che, aumentando la disoccupazione, riducano il livello dei salari, la soluzione classica del Gold Standard di due secoli orsono.
Quello che però Ue, Fmi (e governo tedesco) non sembrano tenere in conto è che il XXI secolo non è il XIX e che in Grecia, Portogallo e Spagna gli elettori godono ancora, per fortuna del diritto di voto. E in democrazia non è possibile richiedere ai cittadini di firmare per il loro licenziamento o per la riduzione dei loro salari, come invece ha appena fatto il governo di Lisbona, siglando un accordo con l’Fmi che prevede altri 2 anni di recessione. Si tratta di un piano politicamente insostenibile ma anche economicamente suicida, cui infatti i mercati internazionali non sembrano prestare fede, scommettendo in maniera sempre più evidente su un default greco. Default greco che avrebbe conseguenze disastrose su tutta l’Europa, scatenando il panico tra gli investitori privati e trasmettendo il contagio ai paesi detentori di buona parte dei titoli greci – in primis la Germania – e alle altre economie con i problemi macroeconomici più evidenti, a cominciare naturalmente dai PIGS che rischierebbero di fare la stessa fine di Atene.
In realtà anche il pacchetto di aiuti europei ha poco senso economico, con i paesi in difficoltà costretti a indebitarsi con la Ue pagando un tasso di interesse praticamente doppio di quello che pagano i titoli pubblici tedeschi. Il punto naturalmente è che l’Europa non si comporta da economia unica ma da insieme di paesi, altrimenti non si capirebbe l’imposizione di tassi di interesse punitivi ai suoi membri, cosa che per altro segnala ai mercati la poca fiducia che Bruxelles e Berlino ripongono in Atene.
Il problema greco va però oltre le contigenze del momento e segnala in maniera chiara i problemi stutturali dell’archittetura europea, che esistevano già dall’inizio dell’avventura della moneta unica ed erano stati ampiamente preannunciati da diversi economisti ma che sono venuti alla luce in tutta la loro interezza solo con l’inizio della crisi. Le economie europee sono troppo diverse tra loro e nonostante una forte interdipendenza commerciale non possono permettersi una politica monetaria unica, a maggior ragione quando l’egoismo di breve respiro ha il sopravvento su una visione più lungimirante. Prova ne sia che all’Euro Tower di Francoforte si continua a discutere dei problemi dell’inflazione nell’area euro mentre le economie periferiche sono in recessione e avrebbero bisogno di consistenti stimoli monetari – nuovamente il paragone con la Gran Bretagna è istruttivo, i quantitative easing hanno portato l’inflazione al 4.5% ad aprile ma hanno anche evitato i problemi di liquidità che invece Grecia e Portogallo si trovano ad affrontare. Soluzioni semplici non se ne vedono. Un’entità politica che sia qualcosa di più di una Unione monetaria in questo momento starebbe trasferendo in maniera massiccia risorse da una parte all’altra del paese (in questo caso dalla Germania alla Grecia) per poter fronteggiare il periodo di crisi, ma questo è categoricamente escluso dal governo tedesco e dalle istituzioni europee che anzi, come abbiamo visto, fanno pagare alla Grecia più del dovuto per i prestiti. In termini di economia politica classica, sembra che il capitalismo europeo si stia avviando verso un equilibrio semi-autoritario, in cui cittadini sono costretti a subire tagli di salari e diritti senza poter decidere in maniera democratica del proprio futuro. In tale contesto, Mirafiori e Atene non sembrano poi realtà così distanti: in entrambi i casi ai lavoratori è semplicemente imposto di obbedire a piani decisi da altri e che peggioreranno le loro condizioni di vita.
Tale imposizione rischia però di essere controproducente anche per chi la propone. I sacrifici senza fine non possono che creare una situazione sociale incandescente che il governo greco potrebbe non essere in grado di tollerare. La ristutturazione del debito, lo abbiamo visto, potrebbe essere un primo passo, a cui però si potrebbe accompagnare un’uscita di Atene dall’Euro-zona. D’altronde la Grecia si trova in una situazione molto simile a quella dell’Argentina nel 2001, quando il peso ancorato al dollaro aveva di fatto cancellato la libertà di manovra della politica monetaria di Buenos Aires. Nel momento dell’esplosione della crisi il governo argentino rinunciò al dollar-peg e ristrutturò il debito. La maggior parte degli economisti di estrazione neo-liberale predisse disastri, ma l’economia argentina beneficiò della scelta dell’allora presidente Duhalde, crescendo di oltre il 63% nei sei anni successivi. In tre anni il Pil argentino raggiunse i livelli pre-crisi mentre nel caso della Grecia le previsioni più ottimiste, già smentite dai fatti, parlano di otto anni. Certo, l’uscita dall’euro sarebbe un danno di immagine fortissimo con conseguenze sociali molto pesanti nel breve periodo, incluso un probabile bank-run e la possibile chiusura temporanea del sistema bancario, come sostiene Paul Krugman. Ma i benefici di medio periodo potrebbero essere tali da costringere il governo di Atene ad adottare una soluzione così drastica, soprattutto di fronte all’esplodere della crisi sociale.
Il rischio naturalmente, anche in questo caso, sarebbe un effetto domino, con le altre economie periferiche dell’area euro costrette a intraprendere un simile percorso – al contagio finanziario si accompagnerebbe una rinnovata competitività greca che metterebbe sotto pressione le economie più piccole e deboli. Insomma, uno scenario catastrofico, con conseguenze che nessuno può prevedere con certezza anche sulle economie europee più solide. Siamo forse di fronte all’ultima possibilità per la Ue di salvare la Grecia e se stessa ma al momento non sembra che i governi europei comprendano a pieno cosa c’è veramente in ballo dietro gli scioperi di Atene. Invece di discutere sui possibili effetti che l’uscita di scena di Strauss Kahn potrebbe avere sulla crisi greca – nessuno, a mio parere – si dovrebbe riflettere su come rifondare l’economia europea su basi più solide, e possibilmente anche più giuste.
Nicola Melloni
www.sbilanciamoci.info

domenica 22 maggio 2011

Ue, la nuova dottrina della sovranità limitata


Le nubi continuano ad addensarsi su Atene. L’anno scorso ci era stato detto che adottando il pacchetto di Fmi ed Ue la Grecia se la sarebbe cavata, certo a caro prezzo, ma sarebbe comunque riuscita ad uscire dalla crisi. Licenziamenti, salari più bassi, riduzione di servizi sociali sarebbero serviti a ridurre il debito e a rilanciare il paese. Ovviamente non è successo, la crisi si avvita su se stessa, i salari più bassi non hanno rilanciato la competitività del paese, ma ridotto i consumi e accentuato la spirale recessiva, rendendo in tale maniera ancora più drammatica la dinamica del debito. Ed allora Ue e Fondo stanno intervenendo una seconda volta. I tedeschi sono una volta di più in prima linea nel fare richieste: si lavori di più, meno vacanze, innalzamento dell’età pensionabile. Ed intanto l’Ue costringe Atene a vendere le lotterie e le autostrade per fare cassa. Una follia: per avere un minimo di liquidità una tantum si prosciugano le fonti di entrata future – come se una azienda vendesse i suoi rami più produttivi per venire incontro ai creditori. I conti verranno pagati inizialmente, ma nel medio periodo la situazione sarà ancora più disastrosa. Il tutto peggiorato dall’archittettura istituzionale europea che impedisce ogni approccio flessibile e costringe l’economia greca alla deflazione interna. Come abbiamo detto più volte, però, queste scelte di politica economica comportano prezzi sociali esorbitanti e conseguenze politiche facilmente prevedibili, alimentando lo scontro sociale e la delegittimazione della classe politica greca. Non è allora un caso che il Fondo Monetario richieda all’intero arco costituzionale greco di accettare le condizioni capestro poste dagli organismi internazionali, nell’evidente timore che la popolazione greca rigetti i ricatti e decida di denunciare tali accordi. Si tratta di una riedizione liberale della dottrina della sovranità limitata di brezneviana memoria: in Grecia si può votare, ma le decisioni si prendono altrove.
E’ la logica del ricatto che caratterizza il capitalismo del XXI secolo, da Mirafiori ad Atene.
Ma anche questi ricatti hanno vita breve, specialmente se basati su un approccio economico completamente irrealistico. L’aggravarsi della situazione del debito ha aumentato i tassi di interesse che il mercato richiede per rifinanziare il governo greco, dando ormai per scontato che sarà impossibile ripagarlo in toto, e questo sta scatenando il panico a Francoforte e Bruxelles. Bini Smaghi, rappresentante italiano nel board della Bce è particolarmente duro: la ristrutturazione del debito sarebbe un suicidio economico e politico. Il punto è capire per chi sarebbe un suicidio.

Se Atene deciderà di non pagare il debito, in tutto o in parte, a soffrire saranno essenzialmente le banche tedesche con conseguenze pesanti per il governo di Berlino. Ma non sarebbe solo Berlino a patirne le conseguenze. I mercati finanziari, specialmente quelli europei, sono ormai fortemente integrati e sono essenzialmente governati da quelli che Keynes definiva animal spirits. Cosa vuol dire, in concreto? Da un lato le banche tedesche, a seguito di forti perdite, sarebbero costrette a rivedere il proprio portafoglio, diminuendo il rischio e quindi disinvestendo in altri paesi in difficoltà, a cominciare da Portogallo, Irlanda e, in prospettiva, Spagna ed Italia. Dall’altra gli investitori privati sarebbero assaliti dal panico ed i paesi sotto attacco sarebbero esattamente gli stessi, il che inevitabilmente li costringerebbe a seguire la via greca. Sarebbe la fine dell’Euro, e quindi Bini Smaghi ha perfettamente ragione a temere il deafult greco, ma sembra arrivato fuori tempo massimo.
Per scongiurare tale possibilità si sarebbero dovute scegliere politiche economiche diverse, che non uccidessero l’economia reale e non punitive per la popolazione. In democrazia si ricerca il consenso e certo si possono anche richiedere sacrifici, ma non li si possono imporre. Soprattutto non si può far pagare ai soli lavoratori il costo di una crisi che ha ben altri padri. Ue e Fmi si sono distinti ancora una volta come organismi tecnocratici e pre-democratici ed è stato questo approccio ad esacerbare gli animi e a peggiorare la situazione economica greca. Ma questo errore non è stato compreso ed anzi viene ripetuto in queste ore, rilanciando politiche economiche miopi, a partire dalle privatizzazione forzate, che creereanno solamente maggiore malconento. Per salvare l’Ue è necessario salvare la Grecia, ma quello che è stato fatto finora è spingerla verso il baratro, replicando in parte le scelte folli che il Fondo aveva imposto quasi quindici anni fa in Asia, con risultati disastrosi. Storia ed esperienza, purtroppo, non sembrano avere insegnato nulla ed i prezzi di questi errori rischiano di trascinare tutta l’Europa, e non solo la Grecia, in un futuro di miseria.

di Nicola Melloni
Liberazione

giovedì 19 maggio 2011

come titolava una volta cuore : hanno la faccia come il culo e non muoiono mai


in primis, ovviamente, il lider minimo, l'attila della sinistra italiana (il gengis khan invece lo aspettano ancora in africa):
http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=10EOM2

ovviamente ha sempre ragione lui, anzi par proprio di capire che sto successo elettorale (del pd, e che cazzo, e solo loro) sia dovuto all'apertura al terzo polo. quindi battiamo pure su quello, visto che ci fa vincere. veramete un asino! e no, per favore, non mi accusate di voler sempre trovare problemi nel pd. sono i problemi del pd che mi vengono addosso, tutti i giorni! per tornare a perdere non c'e' che fare altro, tutti dietro la barca di d'alema e ale' che ci becchiamo altri 10 anni di sivlio seguiti da 15 di monteprezzemolo!

ma non e' finita. gli amici di d'alema son peggio di lui...il che e' tutto dire. ce lo ricordiamo rondolino? addetto stampa di minimo a palazzo chigi? con grande coerenza e simpatia fa ora l'editorialista del giornale e come inizia? attaccando prodi! come vedete, in effetti, la coerenza non gli manca, non mentivo!! per altro l'articolo sembra proprio ispirato da quell'ometto coi baffi.

http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=10EO09

infine velardi, altro lothar di d'alema a palazzo chigi, che fa nella vita ora? il consulente della campagna elettorale di lettieri, il candidato pdl a napoli.
ora, ammetterete che la strategia e' astutissima. vendiamo i brocchi e i portasfiga alla squadra avversaria sperando che la facciano retrocedere! come dice baffo moscio nel pezzo, bisogna in effetti rifarsi a mao e alla filosofia cinese per capire ste cose..cosa che noi mortali non possiamo certo fare. non sono traditori, non possiamo certo accusarli di intelligenza con il nemico, no, questo davvero no, davvero mi oppongo! intelligenza quando si parla di sti personaggio non si puo' proprio, mai, mai dire!

Nicola Melloni

martedì 17 maggio 2011

IL RISVEGLIO DELLA SINISTRA

Un risultato sconvolgente ed entusiasmante. Certo si tratta del primo turno e perdere poi tra 2 settimane a Milano e Napoli sarebbe amarissimo, ma non possiamo nasconderci dietro la paura del futuro. Questa tornata elettorale è stata clamorosa ed ha dato dei segnali politici che si tratta ora di saper cogliere. Insegnamenti utili a tutti, soprattutto a chi vuole cambiare l’Italia di Berlusconi.
Berlusconi che è in rotta, perde catastroficamente a Milano e rimane al palo a Napoli. Opposizione che avanza in tutta Italia ma con una serie importanti di caveat. Quella che vince è la Sinistra con la S maiuscola, con queste elezioni viene definitivamente spazzata via il mantra che ha caratterizzato 2 decenni di politica italiana: si vince al centro,  bisogna essere moderati.  Lo si era già capito in Puglia, regione tradizionalmente conservatrice dove la candidatura dirompente di Vendola aveva sconvolto i giochi. Si pensava fosse un’eccezione, si dimostra la regola. A Milano la sinistra vince nella sua caratterizzazione radicale, con Pisapia. E lo stesso fa a Cagliari. In moltissime realtà dalle caratteristiche tuttà’altro che omogenee i candidati dal profilo più marcatamente di sinistra vincono le primarie e poi, soprattutto, prevalgono nella competizione elettorale. Succede anche a Napoli dove le elezioni si sono trasformate in primarie allargate con nettisima prevalenza di De Magistris, sostenuto da FdS ed IdV. In altre città il candidato più di establishment del PD vince al primo turno, come a Bologna e Torino, dove però si registrano forti cali di consenso e soprattutto lasciando scoperto il fianco sinistro, occupato, purtroppo, dal Movimento a 5 stelle che non a caso ha i suoi risultati migliori a Bologna, Torino, Rimini e Ravenna, dove il centrosinistra si contraddistingueva per la sua “moderazione”.
Quindi il primo insegnamento è che si vince stando a sinistra, tenendo la coalizione unita senza veti e spaccature, e non inseguendo il centro. Personalità (e programmi!) di sinistra non spaventano i moderati ed intercettano il voto radicale, insofferente di una politica rinchiusa nel palazzo. La seconda lezione, però, è che, se politicamente prevalgono personalità a sinistra del PD, numericamente non si può dire altrettanto, basti vedere i modestissimi risultati di IDV e SEL a Napoli e Milano nonostante gli exploit dei candidati sindaci.  E la FdS rimane spesso al palo, nonostante in quelle due città abbia risultati lusinghieri, in linea con gli altri due partiti a sinistra del PD. Il che, semplicemente, vuol dire che è ora di aprire un serio cantiere a sinistra, al di là di personalismi, gelosie, dispute tutte politiciste. L’elettorato crede in candidati di sinitra, radicali, di rottura, ma non crede in partitini litigiosi, divisi, spesso costruiti come comitati elettorali o percepiti, a torto o ragione, come marginali e rissosi. Ma lo spazio politico esiste, eccome, altrimenti non si spiegherebbero i risultati delle primarie, non si spiegherebbe il grandissimo successo di Pisapia a Milano. E questo ci porta ad una ultima riflessione. Una sinistra-sinistra, unita e con un programma coerente ed ordinato, può imporre i propri candidati e soprattutto le proprie idee anche al PD, e può dunque costruire una alternativa politica al governo delle destre, che si ponga l’obiettivo non solo di ricostruire la sinistra (obiettivo comunque indispensabile) ma anche di cambiare il paese.

Nicola Melloni

lunedì 16 maggio 2011

Al voto, al voto!...Al voto?
di Nicola Melloni

Oggi e domani si vota in molte importanti città italiane e potrebbe essere una buona occasione per
dare un colpo mortale a Berlusconi, eppure difficilmente sarà il caso. Una volta ancora l’opposizione
non riesce a presentare una vera alternativa di sistema e schiera candidature di tutti i tipi.

A Milano la candidatura di Pisapia rappresenta una ventata di novità, persona seria davvero
alternativa alla Moratti in grado di raccogliere voti su uno spettro molto ampio di elettori, dalla
sinistra radicale alla borghesia moderata, senza per questo compromettere le sue idee. Vincere nel
cuore del berlusconismo sarebbe una grande svolta e sicuramente Pisapia deve essere sostenuto
senza se e senza ma.

Diverso il caso di Bologna, dove dopo la deludente giunta Cofferati e l’obbrobrio di Del Bono il PD ha
scelto un candidato grigio, insignificante con un passato da assessore non proprio edificante. Nella
città simbolo della sinistra dunque continua la crisi, l’incapacità di riconquistare la progettualità che
ha reso Bologna esempio invidiato in tutto il mondo, rinchiusi in giochi di potere, contando su una
tradizione civica e culturale che però, abbandonata a se stessa, sta lentamente ma inesorabilmente
scomparendo. Lo dico da bolognese che per una volta ha deciso di non andare a votare. Mi auguro
comunque il successo di Merola, perchè consegnare la città alla Lega sarebbe disastroso. Ma votarlo,
no, non ci riesco.

A Torino invece si arriva da un decennio di ottima amministrazione Chiamparino, dove però alle
innegabile capacità di sindaco si sono sovrapposte battaglie culturali e politiche – condivise in
toto anche da Piero Fassino – che sono davvero inaccettabili. In primis, ovviamente, la vicenda
Mirafiori e la vicinanza chiara tra il PD torinese e il vertice FIAT. Ora è chiaro che si tratta di un voto
amministrativo e la città, a detta della maggioranza dei torinesi, è stata amministrata egregiamente,
e quindi Fassino avrebbe almeno il diritto ad un abbuono di fiducia. Ma la criticità della vicenda FIAT
a livello nazionale non può essere trascurata e proprio per questo la sinistra offre una candidatura
alternativa che penso possa mobilitare una parte di elettorato che non si riconosce nella lettura che
il PD dà della crisi dell’industria e dei rapporti sociali che si vengono a delineare in questo inizio di XXI
secolo.

Ed infine Napoli, dove le primarie del centrosinistra si sono rivelate una farsa, dove una candidatura
di vera rottura con il disastro Bassolino-Iervolino come quella di De Magistris è stata osteggiata
dagli apparati burocratici e da gelosie personali – non si spiega altrimenti la scelta suicida di SEL di
sostenere Morcone (come per altro Fassino a Torino). De Magistris porta nella sua coalizione IDV e
Rifondazione oltre a una marea di elettori del PD in libera uscita, almeno stando ai sondaggi. Non
posso che augurarmi una sua vittoria.

Infine il voto di lista, ovviamente, avrà un suo peso. Si vedrà quale è la vera forza di Vendola al
momento – da una parte sospinto dalla candidatura Pisapia, dall’altra, credo, frenato dalle scelte
moderatissime a Torino e Napoli. Si vedrà se Di Pietro ha esaurito la sua spinta propulsiva, incalzato
da un lato da Vendola e dall’altro dai grillini. Grillini che in nome di una politica diversa fanno in
realtà anti-politica, o almeno la fa il suo leader, sempre più con accenti omofobi e razzisti. Al grido
di “son tutti uguali”, contro la “vecchia politica” ripercorre il cammino del Berlusconi del 94, con
l’aggravante di contribuire in maniera forse decisiva alla resistenza al potere dello stesso Berlusconi.
Soprattutto a Milano, dove invece di sostenere un candidato veramente alternativo cerca il voto
di protesta, per puro narcisismo. A tanto è arrivata la politica italiana. Infine Rifondazione, in
grande crisi, isolata, ignorata dai media ma pure incapace lei stessa di offrirsi come vera novità. A
parte nel caso bolognese offre però candidature di vera alternativa e questo è un dettaglio da non
sottovalutare al momento del voto.

domenica 15 maggio 2011

La soglia psicologica dei 5 milioni (di disoccupati)
di Monica Bedana

Alleggeriamo la tristezza dell'argomento con un po' di meseta...il mio angolo preferito del Tormes, vicino a casa

Queste righe le scrivo perché me le ha chieste Simone Giovetti e, come lui ben sa, non riuscirei mai a dirgli di no. Scrivo quindi raccontando come racconterei ad un amico, con parole mie, quello che so e credo di aver capito su come questo Paese, la Spagna, in cui vivo ormai da mezza vita, sia arrivato alla soglia dei cinque milioni di disoccupati ed i segni di ripresa economica, quei “verdi germogli” che spera di veder crescere a breve rigogliosi il Ministro dell'Economia, pare abbiano ancora bisogno di molto fertilizzante, prima di spuntare.

La Spagna non sta affrontando per la prima volta, in tempi moderni, il problema di un' altissima percentuale di disoccupati; già verso la fine dell'ultimo governo di Felipe González, nel 1996, il 22% della popolazione attiva era in cerca di lavoro. Allora però il Paese stava entrando lentamente nella via della modernità dopo quarant'anni di isolamento dovuto alla dittutura franchista. Il cammino si dischiuse completamente con l'entrata della Spagna nell'Unione Europea. Si modernizzò il paese mettendo in atto una pesantissima riconversione industriale; migliorarono l'educazione, la sanità, le infrastrutture, i meccanismi di protezione sociale, ma tutto ciò -vale la pena di ricordarlo- fu a costo di aumentare abbondantemente il debito pubblico e di ricevere dall'Unione Europea quasi la metà di quei fondi di sviluppo destinati alle economie più deboli, che ieri come oggi erano l'Irlanda, il Portogallo e, appunto, la Spagna. Il circolo vizioso era già iniziato quindi nel '92, l'”anno della Spagna”, quando si gridò al miracolo economico per gli apparentemente spettacolari risultati delle Olimpiadi di Barcellona, dell'Expo di Siviglia, dell'AVE tra Madrid e Siviglia, il miglior treno d'Europa per alta velocità.
Modernizzazione e crescita alla velocità della luce, ma lo sviluppo economico era un gigante dai piedi d'argilla.

Sulla sinistra, in fondo, le querce del campo charro, il regno dei maialini neri e dei tori da corrida

Dopo il 1992, è senz'altro il 2007 il secondo anno emblematico per la Spagna moderna; in primavera del 2007 la disoccupazione toccò il minimo storico, secondo le statistiche: solo un 7,9% di persone stava cercando lavoro quella primavera, soltanto 1,7 milioni di disoccupati. Eppure i primi sintomi della crisi economica mondiale erano già nell'aria.

Spiegare come si è giunti, da quella fausta primavera del 2007 ad oggi, con oltre 4,9 milioni di disoccupati, è relativamente facile; difficilissimo invece immaginare o sapere come uscirne (e in questo campo nemmeno oso un abbozzo di teoria, ché mi par già di sentire il professor Melloni che sventola la bandiera del “sangre, sudor y l'agrimas” e ci spinge fuori dall'euro).
Il lasso di tempo in cui si è passati dalla vida loca, l'epoca in cui ottenere denaro in prestito era perfino più facile che sentire Mourinho lamentarsi di qualcosa, è relativamente breve, quattro anni scarsi. Ma lo scoppio della bolla immobiliaria non fu che la punta dell'iceberg di un sistema produttivo che da lustri aveva iniziato a squagliarsi senza che nessuno avesse pensato per tempo a correre ai ripari. In pratica, trovare lavoro era facilissimo, ma si trattava quasi sempre di lavoro poco qualificato e segnato inesorabilmente dalla temporalità.


All'orizzonte, i campi di lenticchie e ceci, famosi prodotti della Armuña, l'angolo di meseta in cui vivo

Durante gli anni d'oro dell'edilizia, tra il 2003 ed il 2007, in Spagna si costruivano circa 700.000 case all'anno; nella famosa primavera del 2007 ben 2,7 milioni di persone, secondo dati dell'EPA (Encuesta de Población Activa) lavoravano nella costruzione; i dati di aprile di quest'anno indicano che in questo settore ora resistono a malapena 1,5 milioni di lavoratori. Insomma, negli anni delle vacche grasse in Spagna, più che in qualsiasi altro Paese dell'Unione Europea, i posti di lavoro che furono creati non necessitavano qualificazione, si trattava di bassa manovalanza che qualsiasi persona avrebbe potuto svolgere, senza bisogno di preparazione specifica; per questo i settori che crebbero a dismisura furono la costruzione de il turismo. Settori che divennero le colonne portanti della nostra economia, oltre ad una eccellente entrata di finanziamenti esterni che ora bisogna pagare. A ciò si aggiunge che qui sono relativamente poche le aziende davvero competitive a livello internazionale (nel mio precedente articolo sulla cementificazione del Veneto ho citato Sacyr Vallehermoso, per esempio). Per essere competitivi bisogna innovare; per innovare bisogna investire nella ricerca, perché l'assenza di ricerca ed innovazione finisce per minare la produttività. Le piccole imprese, ancorate a sistemi di produzione obsoleti, o i gruppetti di muratori che vagavano da una periferia all'altra, dalla costruzione di un condominio all'altro, vivevano della stagionalità, del contratto a termine, pensando che ciò poco importava mentre si continuava a costruire. E cosí nei settori meno specializzati e più legati alla temporalità sono affluiti molti giovani, che hanno abbandonato gli studi tratti in inganno dal miraggio di uno stipendio più o meno fisso (che a sua volta apriva le porte dell'emancipazione perché era facilissimo ottenere dalle banche -e soprattutto dalle casse di risparmio- il mutuo non solo per la casa, ma anche per arredarla da cima a fondo e, già che c'erano, pure per una macchina nuova). E vi sono affluiti gli immigrati, molti legali ma moltissimi clandestini, che ora in parte (una percentuale piccola) ritornano ai loro paesi di origine (prevalentemente il sudamerica) ma nella maggioranza dei casi allungano le code alla Caritas per un piatto di minestra o, nella peggiore delle ipotesi, si rifugiano nella criminalità organizzata.


Ogni tre persone al di sotto dei 25 anni, in Spagna ce n'è una che non trova lavoro. E se non si creano nuove aziende, quelle che solitamente danno spazio ai giovani laureati, si può ben capire come in questo Paese sia cosí tremendamente diffusa la disoccupazione giovanile. La temporalità del lavoro riguarda almeno il 30% dei contratti; se a ciò si unisce la scarsa qualità dell'impiego non stupisce che il connubio tra le prime avvisaglie delle subprime (hipotécas tóxicas in spagnolo, un'espressione molto più realistica e pungente) verso la fine del 2007 ed il fallimento de Lehman Brothers, abbia spazzato via in un soffio un sistema che già scricchiolava da tutte le parti nella sua stessa natura. Non appena il rubinetto del credito si chiuse ed il PIL inizió inevitabilmente a scendere, i primi ad essere rimandati a casa furono i lavoratori con contratto a tempo, quelli meno costosi da liquidare. Poi la crisi era peggiore di quanto si volesse ammettere e mentre Governo e Sindacati non trovavano il modo di giungere ad accordi collettivi di settore per la riduzione dei salari o per cambiamenti che riguardassero gli orari o la mobilità del personale, l'accetta iniziava a tagliare anche i contratti indefiniti. Le aziende piccole chiudevano i battenti, quelle grandi, come Seat o Nissan, due dei casi più discussi del paese, si apprestavano a tirare la cinghia.
I risultati dei tagli praticati “a fin di bene” dal Governo sul settore pubblico e delle varie politiche di rilancio dell'economia e dell'occupazione ancora non si vedono; la speratissima ripresa della crescita, imbrigliata com è dalle esigenze e le costrizioni dell'Unione Europea, se anche dovesse far capolino, sicuramente non sarebbe competitiva.

I Governi di Felipe González instaurarono i contratti-spazzatura, quelli di Aznar gonfiarono la bolla immobiliare; Zapatero ha goduto dei frutti dell'epoca delle vacche grasse migliorando senza dubbio il sociale, ma con poca lungimiranza in quanto allo svecchiamento di buona parte del sistema produttivo del Paese. Ora i sacrifici toccano ai cittadini e probabilmente, come dice il professor Melloni, dovremo rassegnarci tutti ad un lungo periodo di “sangre, sudor y lágrimas”.

Il nostro 5X1000 della prossima denuncia dei redditi
al "Children's Relief Fund ONLUS"

Le foto ce le ha mandate Genny per illustrare alcuni dei programmi che il CRF sta sviluppando



Si avvicina il momento di compilare la denuncia dei redditi. E' una data in cui Genny Carraro, di Resistenza Internazionale, volontaria di "Children's Relief Fund", chiede agli amici di destinare il cinque per mille della loro imposta sul reddito alla suddetta fondazione. Attraverso questo blog amplifichiamo la sua voce ed estendiamo l'appello ai lettori.


Farlo è semplice, basta indicare nell'apposito spazio questa dicitura, con il relativo codice fiscale:


CHILDREN'S RELIEF FUND ONLUS: codice fiscale 94083850308


Questo è ciò che ci scrive Genny da Manila, dove ora si trova per visitare i progetti in corso:


"Il Children’s Relief Fund ONLUS – CRF è un’organizzazione nonprofit, laica e formata da soli volontari fondata allo scopo di portare assistenza a bambini di strada e bambini in difficoltà. Il CRF lavora nelle aree più povere di Manila, Filippine. Il CRF sostiene due centri per bambini di strada: un centro ospita 20 ragazzi di eta’ compresa fra i 5 e i 16 anni, offrendo loro vitto alloggio, educazione scolastica, cure mediche... e’ una casa ed una famiglia; il secondo centro e’ un centro per la comunita’ e al suo interno sono stati sviluppati un asilo, un piccolo centro informatico, una biblioteca per la comunità, una clinica dentistica ed un laboratorio di sartoria. L’organizzazione sostiene inoltre corsi di formazione professionale e corsi di alfabetizzazione ed una scuola superiore per ragazzi che non possono permettersi nemmeno l’educazione pubblica. Per mantenere in vita questi progetti il CRF organizza piccoli eventi, concerti, conferenze, cerca il sostegno di aziende, ma soprattutto punta al sostegno a distanza dei singoli bambini: attraverso questo “sistema” ci e’ possibile garantire l’educazione ed il mantenimento di un bambino a lungo termine".


Potrete trovare maggiori informazioni sul "Children's Relief Fund" cliccando QUI per accedere al sito ufficiale. Passiamo parola!

Wu Ming 4 intervista Andrea Camilleri
in occasione del 1º maggio bolognese 2011

Un video segnalatoci da Carla Gagliardini e trasmesso in Piazza Maggiore a Bologna, in occasione del 1º maggio.

Londra ed Edimburgo, le due Gran Bretagne
di Nicola Melloni

La consultazione elettorale avvenuta la settimana scorsa nel Regno Unito ha dato risultati molto chiari. Il referendum per modificare il sistema elettorale maggioritario in senso leggermente più proporzionale è fallito miseramente, i Liberal Democratici partner di governo dei Conservatori sono stati duramente puniti ed in Scozia si è registrato il trionfo degli indipendentisti.

Cosa sta succedendo, dunque, tra Londra ed Edimburgo? In Inghilterra il trend a favore dei Libdem, che erano continuamente cresciuti negli ultimi dieci anni, si è bruscamente interrotto e si è tornati al classico sistema diviso tra Tories e Laburisti. Non è una sorpresa. La scelta suicida di Nick Clegg, leader dei Libdem, di entrare nel governo Cameron ha avuto effetti devastanti. Tutte le politiche progressive che quel partito aveva promesso, attirando una fetta consistente di voti di sinistra delusi dal New Labour di Blair, sono state tradite, in nome del compromesso di governo. Compromesso che ha favorito solo i Conservatori che hanno dettato l'agenda politica accontentando i propri elettori mentre Clegg e i suoi pagano per l'azione di governo. D'altronde, chi è soddisfatto di Cameron e del suo gabinetto vota Tory, mentre i delusi votano Labour. L'antipatia per i LibDem è divenuta così forte che il referendum sulla riforma elettorale è naufragato proprio perché sostenuto dai Liberal Democratici. Anche il supporto dato dal Labour al tentativo di riforma non è servito, con gli elettori di sinistra ben decisi a punire il tradimento di Clegg e del suo partito che rischiava di essere il più avvantaggiato da tale riforma.

La geografia politica dell'Inghilterra sembra dunque polarizzata, con il sud del paese - la grande campagna inglese - fermamente in mano conservatrice, mentre il Nord e le città industriali sono ritornate saldamente in mano laburista. Il contrasto è durissimo, si tratta di due paesi che non si parlano, basti pensare che a Manchester e Liverpool i Conservatori non sono neppure presenti nei consigli comunali. Ma la situazione è ancora più drammatica se si studia il caso scozzese. La Scozia è stata da sempre un bastione Labour ma negli ultimi anni si è registrata la forte ascesa degli indipendentisti che giovedì scorso hanno conquistato la maggioranza assoluta nel parlamento e potranno ora indire un referendum sulla secessione scozzese dal Regno Unito.

Certo i rapporti storici tra Edimburgo e Londra non sono mai stati idilliaci ma quello che sta succedendo è in realtà un fenomeno che va ben oltre i confini britannici. L'Europa tutta viene attraversata da nuovi movimenti che non sono più nazionalisti in senso classico (con qualche eccezione di rilievo, Francia, Svezia, Austria e più drammaticamente in Ungheria) ma regionalisti e secessionisti. Il problema è presente nel Regno Unito, in Italia, in Belgio, in Spagna. Sono casi tra loro molto diversi, con differenti radici storiche ed economiche ma uniti dall'incapacità delle politiche neo-liberali di costruire un sistema economico inclusivo. La polarizzazione del reddito e le politiche classiste, unite all'imperante ideologia dell'utilitarismo divaricano fino a distruggerlo il tessuto sociale di una nazione ed infatti questi movimenti hanno preso nuova linfa dalle difficoltà economiche dell'ultimo decennio e dalla recessione che ha seguito la crisi finanziaria negli ultimi anni. Come al solito, il richiamo al territorio, alla nazione, alla razza rappresenta una via d'uscita facile (e sbagliata!) alle difficoltà economiche - basti pensare ai casi sovietico e yugoslavo.

Anche nel caso scozzese i motivi economici non mancano, con i nazionalisti di Edinburgo che rivendicano la sovranità sui giacimenti petroliferi del Mar del Nord. Questi segnali non vanno sottovalutati ed è il caso di ricordare che il sistema di stati europei, così come noi lo conosciamo, è piuttosto recente e che la storia del continente è sempre stata caratterizzata da continue modifiche ai suoi confini interni. La sfida dell'Unione Europea era di abolire le frontiere, ma farlo solo in nome del mercato rischia di ottenere il risultato opposto. Invece di costruire una democrazia europea fondata sui valori di solidarietà ed eguaglianza che hanno contraddistinto il trend plurisecolare iniziato con la rivoluzione francese, si è deciso di puntare sul mercato unico all'insegna del capitalismo anglosassone. Capitalismo anglosassone che con la sua crisi mette ora a rischio l'esistenza stessa del Regno Unito. Un segnale preoccupante che non può essere sottovalutato.

venerdì 13 maggio 2011

Referendum del 12 e 13 giugno 2011

Uscire dall'Euro sarebbe disastroso.
Ma forse Atene non ha più alternative.
di Nicola Melloni

Negli ultimi giorni si sono intensificate le voci secondo cui la Grecia si stia preparando a ristrutturare il debito o, addirittura, ad uscire dall'euro. Sono voci che, nonostante le smentite dei vertici del governo greco, della Ue e della Bce hanno una qual certa consistenza.

Atene si trova in una situazione economica disastrosa. Il debito sta per raggiungere il 160% del Pil, le agenzie di rating continuano a declassare i titoli greci che sono ormai a livello "spazzatura" ed il mercato chiede ormai tassi di interesse del 16% su quegli stessi titoli, cinque volte di più del rendimento dei corrispettivi tedeschi. Il piano di salvataggio dello scorso anno, come per altro avevamo previsto, si sta dimostrando un buco nell'acqua.

Il perché è facilmente comprensibile. L'idea che la Grecia potesse rimettersi in piedi con il solo "lacrime e sangue" non ha fondamento senza una svolta autoritaria. Fmi e Ue hanno chiesto ai greci di stringere la cinghia ma in realtà quello che si sta chiedendo è una deflazione interna, come quelle che avvenivano nel XIX secolo quando il sistema monetario internazionale era governato dal Gold Standard, un sistema di cambi fissi che prevedeva l'auto-induzione di una recessione economica per riequilibrare i conti dello Stato in disordine. Questo modello, ovviamente, non era più sostenibile con la democratizzazione del XX secolo e gli Stati in difficoltà economica hanno cominciato ad usare un mix di politiche di rigore, svalutazioni competitive e politiche inflattive che riducono il valore reale del debito. La Grecia non è in condizione di farlo, essendo intrappolata dentro l'euro - non può svalutare per rilanciare l'economia e non può stampare moneta per finanziare la spesa pubblica (che è quello che stanno facendo, ad esempio, Stati Uniti e Gran Bretagna). E dunque il rilancio competitivo della Grecia deve avvenire attraverso la riduzione dei salari e delle condizioni di vita della popolazione, un'opzione insostenibile politicamente e non è un caso che si sia cominciato ad evocare lo spettro di Weimar, la democrazia tedesca travolta dalla crisi economica del '29.

Dal punto di vista economico le prospettive non sono migliori: la deflazione la si raggiunge con l'aumento della disoccupazione che riduce i salari, ma questo vuol semplicemente dire anni di recessione che renderebbero ancora più drammatica la dinamica del debito: più si taglia, meno si cresce, più ancora bisogna tagliare.
Ecco allora che le ipotesi di ristutturazione del debito o di uscita dall'euro prendono quota, scatenando il panico nelle cancellerie europee e nei mercati internazionali. La ristrutturazione, infatti, significherebbe che una parte del debito verrebbe rimodulata, con pagamenti dilazionati nel futuro o, realisticamente, cancellati. Questo inevitabilmente metterebbe una grandissima pressione sulle banche che hanno prestato denaro alla Grecia a prezzi quasi da usura. Da una parte i più grandi creditori di Atene sono le banche tedesche, il che crea non pochi grattacapi al governo di Berlino che si trova stretto in una duplice morsa: da una parte l'elettorato tedesco che non vuole pagare i debiti greci, dall'altra le banche che hanno bisogno del salvataggio della Grecia. Inoltre il panico che si scatenerebbe sui mercati internazionali si diffonderebbe presto agli altri paesi europei con situazioni economiche instabili, in primis Irlanda e Portogallo, ma anche Spagna e Italia.
I mercati internazionali già adesso non si fidano di questi paesi, intrappolati tra una situazione economica critica ed un meccanismo istituzionale europeo incapace di porvi rimedio. Non a caso gli interessi pagati sul debito spagnolo sono del 60% più alti di quelli pagati sul debito inglese nonostante una situazione economica sostanzialmente simile, con la differenza però che la Gran Bretagna ha ancora il controllo sulla sua politica monetaria. La reazione a catena che la ristrutturazione del debito greco potrebbe scatenare rischia dunque di mettere altri stati del vecchio continente in una situazione di sostanziale incapacità di ripagare il proprio debito.

Ancora più scioccante sarebbe la scelta della Grecia di uscire dall'euro con il rischio di frantuamare l'intera Unione monetaria. Tale opzione avrebbe effetti disastrosi sull'economia greca, che si concretizzerebbe in un probabile bank-run e la conseguente chiusura temporanea del sistema bancario, con tutto quel che ne consegue. Le prospettive di medio termine potrebbero però essere migliori, la nuova dracma svalutata rilancerebbe la competitività della Grecia e con il debito congelato il governo potrebbe concentrarsi in politiche di stimolo fiscale per rilanciare la crescita - quello che, come detto, hanno fatto Usa e Uk ma anche l'Argentina ai tempi della crisi finanziaria del 2001, con risultati più che soddisfacenti. Certo si tratterebbe comunque di un passaggio drammatico che nessun governo può prendere a cuor leggero. Ma i costi sproporzionati che Ue e Fmi stanno imponendo al popolo greco potrebbero non lasciare alternative.

Da "Liberazione" del 12/05/2/11

lunedì 2 maggio 2011

Cartoline dall'Italia:La ragnatela veneta
di Monica Bedana

Sono duemila chilometri esatti quelli che separano Salamanca da Padova in auto. Ad ogni ritorno in patria al volante mi sento sempre più Pasquale Ametrano soprattutto in periodi elettorali.


Quando arrivo a La Junquera, al confine con la Francia, dopo aver attraversato la Spagna intera, sono praticamente a metà strada e penso sempre che il più è ormai fatto. Il tratto francese scivola via in fretta, fino al primo Autogrill italiano subito dopo Ventimiglia, piccolissimo e sempre intasatissimo, sarà per la crisi di astinenza da panino con la cotoletta autostradale che produce la Francia. Dopo questa tappa il consorte è già teso, controlla ripetutamente la tenuta della cintura di sicurezza, si afferra alle porte e sbircia le spie degli airbags...è l'effetto che gli fa vedere più di cinque auto all'orizzonte, perché sulla meseta gli succede raramente.

Alla volta di Brescia sono decisamente già a casa, nel flusso continuo delle quattro più quattro corsie della Milano-Venezia e viceversa. E pensare che ho conosciuto una A-4 a due corsie, una per i camion e l'altra per le macchine; nessun camion che non fosse guidato da uno sprovveduto straniero osava il sorpasso, pena il linciamento istantaneo del camionista e l'augurio di funesti presagi per tutta la sua famiglia. Farsi un giro in A-4 nei tempi in cui il nordest italiano era il motore dell'economia europea era una specie di viaggio catartico durante il quale, prima dell'arrivo a destinazione, o scaricavi l'ansia sull'osato camionista in sorpasso, o l'ansia ti veniva grazie a chi ti tallonava, posizionato ad un millimetro dal tuo posteriore e con un gioco di abbaglianti degno della febbre del sabato sera. L'efficiente Italia del nord aveva sempre fretta, fretta di crescere, di produrre.
Ora, se il PIL mondiale l'anno scorso è cresciuto del +5% mentre quello italiano si è arenato sul +1,3%, quando osservo il fiume su ruota che mi circonda in autostrada mi chiedo dove va tutta questa gente. Trasporto privato, fondamentalmente. La circolazione dei mezzi pesanti invece, a prima vista, non sembra aumentata in modo considerevole...almeno non tanto da giustificare l'aggiunta di altre quattro corsie (due per ogni senso di marcia ed in parte parallele alla A-4) nel tratto tra Vicenza e Treviso (Montecchio Maggiore e Spresiano, concretamente, con collegamento tra la A-4 a la A-27), che costituiranno la "Superstrada Pedemontana Veneta". E' un consorzio italo-spagnolo quello che costruirà la Pedemontana (l'azionista spagnolo è il potente Sacyr-Vallehermoso, il cui ricorso contro la precedente assegnazione dei lavori alla "Impregilo S.p.A." -nientepopodimenoché- è stato accolto dal Consiglio di Stato), la superstrada che frammenterà ed inonderà di cemento buona parte della Valle dell'Agno.
Altro cemento profuso su quel territorio vicentino già durissimamente colpito dall'alluvione di fine ottobre, di cui nessuno più si ricorda .


Passando da Verona, un po' prima di arrivare a Montecchio, l'aria profuma sempre di pandoro e di sfogliatine. Se verrà approvata la costruzione del passante nord, anche lí si respirerà cemento e si perderanno almeno 500.000 metri quadrati di terreno, la stessa estensione del centro storico della città. Tutto perché il teatro romano sta nel posto sbagliato, il traffico s'imbottiglia dove l'Adige quasi lambisce l'Arena e allora la soluzione è una doppia canna di gallerie per smaltire gli ingorghi, oltre 430 milioni di euro di spesa. Se i soldi non ci sono, come in questo caso, la cordata di ditte appaltatrici finanzia il progetto a cambio di 150.000 metri quadrati di opere “di compensazione”; cosí funziona la fagocitazione del nostro territorio da parte delle insaziabili speculatrici del cemento, cosí fan tutte e non è Mozart alla stagione lirica dell'Arena.
Per entrare a Padova, la prossima volta dovrò chiedere in prestito il GPS a Natalino Balasso.

Natalino Balasso e il GPS
"Sostituire è meglio che riparare"

Arrivare al Santo sarà già ricevere la grazia, perché significherà sapersi districare in una ragnatela di nuove grandi strade il cui asfalto convergerà su "Veneto City", mastodontico “polo del terziario” di grido che puzza assai di centro commerciale sfrenato. Oltre un milione e mezzo di metri quadrati di territorio occupati da questo immenso scatolone il cui contenuto è ancora indefinito ma di cui si da già per certo che aumenterà il traffico di veicoli nella zona di oltre settantamila unità al giorno.

Padova, la basilica di Sant'Antonio

Iniziativa privata, che però coinvolge lo Stato almeno nella parte riguardante le infrastrutture destinate a servire la zona; speculazione immobiliare che si somma ai ricavati dei pedaggi autostradali, una delle fonti di guadagno più strabilianti dell'Italia di oggi.
Un esempio eclatante del perverso connubio tra Istituzioni ed interesse privato nella costruzione di grandi opere stradali è dato dal GRAP, il "Grande Raccordo Anulare di Padova", dichiarato dalla Regione “opera di pubblica utilità” nel 2008 e che in realtà si sovrappone inutilmente ad una rete di tangenziali che già esiste. Il presidente del GRAP è Vittorio Casarin che, guardacaso, è anche presidente della Provincia di Padova. Il raccordo costerà 730 milioni di euro, che verranno in buona parte recuperati grazie ai rincari dei pedaggi in uscita dai caselli di Padova. A Casarin scade il periodo di gestione dell'autostrada Padova-Venezia, che passa all'Anas e alla Regione, ma si rifà ampiamente di questa perdita grazie alla costruzione del GRAP.

Pare che tutte le strade non debbano più portare a Roma, bensí a Roncoduro o sul passante di Mestre, il punto più intasato di traffico al mondo. In progetto, oltre al GRAP, la “Nuova Romea commerciale” (che correrà parallela alla Romea di sempre e collegherebbe Venezia con Ravenna e con Cesena-Orte, quindi con Roma, come se ora fossimo isolati dal mondo) e la camionabile Padova-Venezia (collegamentoin due corsie a pagamento tra l'interporto di Padova e porto Marghera, con la scusa di alleggerire il traffico pesante sulla statale brentana, dimenticando che per lo stesso tragitto esiste già, oltre alla brentana, un abbozzo di idrovia mai completata).

No, non è Melloni...è Colleoni. Dux sí, ma a Venezia nel XV secolo
(foto da http://www.sitiunescoadriatico.com/)

L'ennesima colata di cemento sulla Riviera del Brenta, sull'eredità di Palladio, su una delle zone più belle del mondo per il patrimonio artistico che accoglie.
Mi chiedo dove vada il mio Veneto di questo passo, che tipo di gente siamo diventati. Un territorio svenduto alla speculazione edilizia, cementificato, spezzettato fino al martirio e riconvertito in zona industriale, centro commerciale, corsia di autostrada. Il rispetto per l'ambiente, quindi per l'uomo, ignorato (da ignoranza) fino alle estreme conseguenze, tradottesi in alluvioni da terzo mondo lo scorso autunno. Se avessimo imparato la lezione, l'applicheremmo nell'esercizio del voto tra qualche settimana, ma la nostra memoria purtoppo si sta affievolendo sotto la spinta degli interessi di parte in nome di un malinteso progresso.

Il lato sud del Pedrocchi

In macchina ascolto Zucchero che al suo paese vede fiorire il grano; beato lui, perché io, al mio, vedo fiorire caselli e parcheggi e per quanto mi piaccia tornare a casa e mi sogni la notte lo zabaione del Pedrocchi, il pane del Salone e la perfezione storica degli Scrovegni, dopo qualche giorno anelo rabbiosa la vastità nuda della meseta ed il suo cielo infinito.

(Le parole scritte in grassetto contengono links, N.d.A.)